Styx: recensione del film di Wolfgang Fischer
Vincitore del premio della Giuria Ecumenica alla Berlinale 2018 - sezione Panorama, Styx arriva nelle sale italiane il 15 novembre.
Quel che vorremmo tutti è un po’ di pace e per trovarla Rike (Susanne Wolff), protagonista di Styx, parte con la sua barca a vela per l’isola di Ascensione. Per arrivare alla sua meta paradisiaca però Rike deve affrontare un percorso tortuoso, che prende delle sembianze simboliche.
La donna parte da Gibilterra dove sono, secondo la mitologia, le colonne d’Ercole, la fine del mondo conosciuto. Come il cammino di Dante verso il Paradiso, la protagonista deve attraversare lo Stige, Styx in greco, uscendone trasformata.
Mentre il suo viaggio in barca a vela procede, avvolto dai raggi del sole e accompagnato dalle letture della flora e della fauna dell’isola di Ascensione, arriva una tempesta. Ormai Rike si è avventurata nell’Oceano Atlantico e non manca molto per arrivare alla meta. Peccato che imprevisti di enorme portata sono all’agguato e non solo il mood del viaggio cambia, ma vacillano anche le sicurezze e i valori della donna.
Styx: il viaggio dantesco e il punto di vista dello spettatore nelle soggettive del film
Wolfgang Fischer pone lo spettatore nello sguardo e nella pelle di Rike attraverso soggettive e il silenzio per far emergere sensazioni, ricordi, speranze e paure. La protagonista di Styx è da sola a contemplare la tranquillità dell’Oceano, a leggere, mangiare e dormire. Siamo noi ad accompagnarla, nutriti dalla curiosità di conoscere questa isola che tanto la attrae. Iniziamo a sognarla attraverso le illustrazioni del libro che legge e quando ci stiamo rilassando ecco che la tempesta ci risveglia. Il pericolo che la sua vita sia a rischio lo sentiamo vicino, ci siamo affezionati a lei e al suo sogno.
Il regista costruisce il film guidando i cuori del pubblico, portandolo nell’inconsapevolezza a confrontarsi con se stesso e a chiedersi cosa avrebbe fatto al posto di Rike. La tempesta infatti non è il pericolo maggiore, perché una volta finita avvista un’imbarcazione che potrebbe essere in difficoltà.
Si tratta di profughi, troppi su una sola nave, che chiedono aiuto, che probabilmente sono senza acqua e cibo. Rike l’abbiamo vista svolgere il suo lavoro da medico e vediamo subito che in lei si accende un allarme. Sola, nell’Oceano, in una situazione che non aveva mai vissuto prima, cerca di fare la scelta migliore.
Styx cambia volto, passa dalla leggerezza del clima vacanziero al peso delle responsabilità che potrebbero mettere in pericolo la propria e l’altrui vita. Il film mostra ciò che sentiamo nei telegiornali, che leggiamo su internet: la migrazione di popoli che rischiano di morire in mare per un futuro migliore. Chiede allo spettatore di entrare nell’argomento da passivo (lettore) ad attivo (partecipe) in una situazione imprevista. Se infatti queste storie di cronaca le conosciamo solo da terzi è perché accadono in mare, lontano. Spesso, come ha ricordato il regista, iniziano ancor prima, nel deserto, dove neanche arrivano all’opinione pubblica, non essendoci telecamere e cronisti.
Il linguaggio del film per raccontare la mutazione di Rike
In questo modo lo spettatore viene interrogato su come si comporterebbe lui, non le autorità, le associazioni o i politici. Fischer affronta la questione dei morti in mare senza distanza, senza volerne dare una soluzione né un giudizio etico. Semplicemente la umanizza, mostra l’episodio in modo così naturale che appare reale. Invece l’informazione spesso ci allontana e noi abbiamo questa forte capacità di abituarci a tutto, a ogni male, fino ad assorbirlo. Siamo anche bravi a separare ciò che ci riguarda nel nostro piccolo recinto, da ciò che non lo fa, anche se incredibilmente vicino, anche se ne accusiamo le ripercussioni.
Allora Styx fa entrare il mondo nel nostro recinto attraverso la sua protagonista, in cui noi viviamo per quei ’94 minuti di film.