TFF 2021 – Sweat: recensione del film sulla influencer Sylwia Zajac
La recensione di Sweat, il film diretto da Magnus von Horn, in concorso al Trieste Film Festival 2021, sulla influencer Sylwia Zajac.
Una ragazza e i follower. La sua vita portata sui social. Tre giorni della sua vita tra esercizi, solitudine e beveroni proteici. Racconta questo Sweat -uno dei cinquantacinque film che nel 2020 hanno ricevuto la cosiddetta “Cannes Label” –, il film di Magnus von Horn, in concorso al Trieste Film Festival dal 21 al 31 gennaio 2021. Il lungometraggio indaga le giornata e le notti di Sylwia Zajac (Magdalena Kolesnik), influencer polacca in rapida ascesa che si occupa di fitness e che deve affrontare le conseguenze di una diretta su Instagram nella quale racconta in lacrime di soffrire di solitudine.
Sweat: dietro ai muscoli e alla perfezione c’è un vulnus che fa male
I primi minuti di Sweat mostrano la vita normale di un’influencer come tante, fatta di bagni di folla, in cui la protagonista tutta entusiasmo, energia e sudore incita i suoi follower ad allenarsi. Lei è una motivatrice, un modello per chi vuole un corpo come il suo, insegna ad accettarsi ma anche a lavorare sul proprio fisico per essere la migliore versione di sé. Sylwia sembra avere tutto, è una statua, un totem di tutto ciò che nell’immaginario collettivo uno/una vorrebbe essere. Condivide i sorrisi, gli addominali scolpiti, i doni che riceve dagli sponsor. Sul palco si mangia la folla, è una sorta di popstar di oggi, tra selfie, amore e doni, si fa abbracciare dai suoi follower. Tutti vogliono essere come lei, tutti vogliono il suo corpo e questo perché lei accoglie, parla con i suoi fan come se fossero parte della sua famiglia. In Sylwia non c’è finzione – lei mostra ciò che deve mostrare perché questa è la legge dei social -, non c’è falsità e, a poco a poco, emerge la verità: lei è sola, ha bisogno di qualcuno che le tenga la mano, che la faccia sentire importante. Sembra una banalità ma non è così perché questo è ciò che la giovane donna vive; Magnus von Horn arriva al centro della cosa, trattando un tema che può diventare un cliché ma che invece nelle sue mani diventa una storia sincera e urgente.
Sweat: il racconto di molte solitudini
Pubblica ogni due minuti, crea una connessione con quelli che sono al di là del piccolo schermo ma tutto questo le va stretto. In una diretta con i suoi follower Sylwia racconta ciò che sente, ciò che la rende infelice – quella tristezza che non piace ai brand che la sponsorizzano – ma anche profondamente umana. Mostrarsi per quel che si è può rompere la bolla di sapone in cui i “miti” – per quanto nuovi, effimeri, superficiali, forse vuoti – si trincerano, può far cadere questi ultimi dall’empireo in cui si trovano. Sylwia condivide il suo malessere ma questo la rende più fragile: si accorge che uno stalker la spia, lo trova addirittura fuori casa.
Sweat mostra i vuoti del vivere moderno, porta al centro la solitudine degli uomini e delle donne, costretti a cercare “amici” su Instagram; è proprio la solitudine di entrambi, sia dell’influencer che dell’uomo che dalla macchina osserva voracemente la sua musa di un regno fragilissimo, la desidera sessualmente e la sogna da lontano.
Ha bisogno di aiuto Sylwia, lo cerca nel cagnolino sempre al suo fianco, nella sua famiglia, nella madre – che arriva ad incolparla per lo stalker che la importuna -, nel collega di lavoro, Klaudiusz (Julian Swiezewski) con cui sembra avere un feeling importante. Uno dei momenti più disturbanti e fastidiosi paradossalmente è quando la giovane si reca al compleanno della madre, in lei c’è freddezza, distacco, poco le importa del lavoro della figlia, si prende i doni che le porta senza un afflato amorevole per lei. L’unico istante in cui sembra pronta a parlare è quando la figlia racconta la brutta storia che le è capitata: è Sylwia ad avere sbagliato, lui sarebbe potuto essere un tipo carino.
Fuori casa però riesce ad avere una parola amica, un aiuto, un po’ di conforto; è importante ad esempio l’incontro con una donna che la definisce “fantastica, vera, sincera” e con cui si siede a prendere un caffè. Durante quella chiacchierata emerge l’importanza della condivisione (con degli estranei) per sentirsi vivi, per dialogare con l’altro delle proprie gioie mai dei propri dolori. La donna racconta di aver dovuto abortire e, mentre quando ha saputo di essere incinta ha voluto dirlo a tutti (“Non ha senso se non puoi condividerlo”), non parla ormai con qualcuno da molto tempo, per un senso di “vergogna” perché dimostrare la propria fallibilità è difficile, complesso. Dopo questo momento piuttosto intimo e doloroso, il “sortilegio” si spezza. Sylwia svela di voler scomparire dai social e l’altra, come uno zombie, si risveglia e le chiede un ultimo selfie per ricordarsi dell’attimo.
Sweat mostra una generazione di adulti completamente alla deriva, di persone che vengono sbattute da un vento forte e spesso crudele; senza fari, senza radici Sylwia va alla ricerca di un appiglio, di un’ancora, di un braccio a cui aggrapparsi. Questo braccio è l’amico/collega che lei seduce per chiedergli aiuto. Klaudiusz rappresenta un’altra statua dentro vuota, tutto esteriorità, tutto muscoli e forza, simbolo di un machismo esasperato, anche violento – una scena ne è l’emblema – ma che nasconde una “mancanza” e una fragilità; la sua mascolinità fa il paio, anche se in modo diverso, con quella dello stalker che spaventa, desidera, usa Sylwia come un feticcio, non come una donna.
Sweat: un film che sembra quasi un documentario
Sweat è un film che ha il sapore quasi del documentario, che sembra volerci raccontare una storia comune da un punto di vista diverso; allarga lo sguardo e va dietro lo schermo del cellulare per mostrare le verità della vita di Sylwia. Se ad un certo punto il film si perde, a risultare riuscita è sicuramente la scrittura della protagonista e la relativa interpretazione che arriva dritta allo spettatore non solo per l’empatia che egli prova perché è innegabile che non sempre si comprendono pensieri, gesti, idee della giovane. Sweat ci fa interrogare, ci fa porre domande sull’essere degli individui nel mondo (social e non), sul senso di spaesamento e di solitudine che spesso questo vivere “sociale” si porta dietro.