Venezia 74 – Sweet Country: recensione del film con Sam Neill
Sweet Country, l'ultimo film di Warwick Thornton con Sam Neill, ispirato alla storia vera di Wilaberta Jack, può essere considerato un western moderno.
Nel corso di quella che ormai possiamo definire come l’ottima 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è stato presentato in concorso Sweet Country, l’ultimo film di Warwick Thornton con protagonisti Hamilton Morris, Bryan Brown, Thomas M. Wright, Ewen Leslie, Natassia Gorey-Furber e Sam Neill, indimenticato protagonista di Jurassic Park e Il seme della follia. Pur essendo girato e ambientato nell’Australia degli anni ’20, per atmosfere e scenari Sweet Country può essere considerato un western moderno, incentrato sulle tematiche del razzismo e dell’intolleranza. Il film è ispirato alla reale storia di Wilaberta Jack (qui chiamato Sam Kelly), aborigeno che fu arrestato e processato per l’omicidio di un uomo bianco.
Entroterra australiano, 1929. Appena giunto ad Alice Springs, il veterano della prima guerra mondiale Harry March (Ewen Leslie) chiede a Mick Kennedy (Thomas M. Wright) il prestito di due aborigeni per aiutarlo nei lavori della sua proprietà. Uno dei due braccianti è il ragazzino Philomac (Tremayne Doolan/Trevon Doolan), che al suo arrivo viene immediatamente incatenato da Harry. Durante la notte, il ragazzo riesce a scappare e a trovare rifugio nella stazione più vicina, gestita dall’aborigeno Sam Kelly (Hamilton Morris) e dalla moglie incinta Lizzie (Natassia Gorey-Furber), in attesa del prete Fred Smith (Sam Neill), andato in città per alcune commissioni. In preda alla rabbia, Harry si presenta dai due aborigeni, reclamando con urla e aggressività la restituzione di Philomac. Per difendere se stesso, la moglie e il ragazzino, Sam spara ad Harry, uccidendolo.
Sapendo che a causa delle sue origini verrà comunque ritenuto colpevole e giustiziato, Sam comincia una disperata fuga nell’entroterra insieme alla moglie, con il Sergente Fletcher (Bryan Brown) alle loro calcagna.
Sweet Country mette in scena la triste condizione degli aborigeni australiani nella prima metà dello scorso secolo
Dopo i casi di Brimstone e de I magnifici 7 della scorsa edizione, la Mostra del Cinema torna con Sweet Country a dare spazio a un film western, seppure sui generis, testimoniando la vitalità di un genere dato troppo spesso e ingiustamente per morto. Warwick Thornton procede per sottrazione, spogliando il genere della sua componente epica e spettacolare per concentrarsi sulla tematica principale, ovvero il razzismo perpetrato nella prima metà dello scorso secolo nei confronti degli aborigeni australiani. Il regista (e anche direttore della fotografia) ci mostra una Alice Springs affascinante con i suoi ampi spazi, ma anche arida e ostile, teatro di una fuga disperata per la salvezza e di una lotta disperata contro il pregiudizio e la schiavitù.
Pur forte di un impianto visivo e scenografico notevole, Sweet Country non riesce mai a convincere pienamente lo spettatore, vittima di una storia esile e poco originale, non adeguatamente sostenuta da una narrazione scialba e poco incisiva, che cerca di mascherare con flashback e flashforward la limitatezza dei contenuti. Warwick Thornton si limita quindi al compitino, scegliendo soluzioni narrative semplici e ampiamente rodate e impedendo così allo spettatore di appassionarsi a una storia che odora continuamente di già visto.
Sweet Country: niente di più che un modesto prodotto di genere
Sweet Country trova i propri punti di forza nelle sequenze più cruente (su tutte quella dell’uccisione di Harry March) e nella buona caratterizzazione dei protagonisti, abili a incarnare le opposte visioni del mondo e della società di occidentali e aborigeni: gli uni con una costante tendenza all’oppressione e alla schiavizzazione, gli altri abili il proprio ancestrale legame con la terra e i suoi segreti per salvarsi la pelle. Particolarmente azzeccato anche il climax finale della pellicola, con quell’amaro “Questo paese non ce la farà mai” sentenziato dal personaggio del sempre affidabile Sam Neill che sintetizza perfettamente il messaggio della pellicola.
Sweet Country si rivela niente di più che un modesto prodotto di genere, a cui vanno riconosciuti i meriti di un ottimo impianto scenico e di aver riportato alla luce la triste condizione degli aborigeni australiani, ma che raramente riesce ad avvincere lo spettatore. Resta quindi il rimpianto per quello che con un po’ di coraggio in più nella narrazione avrebbe potuto trasformarsi da buon film a cult del genere.