Bif&st 2020 – Sympathy for the Devil: recensione del film su Paul Marchand
Il film presentato nella sezione Panorama internazionale racconta le vicende del giornalista Paul Marchand durante la guerra di Bosnia.
“La guerra ti entra nel sangue” come afferma un giornalista in Sympathy for the Devil del regista Guillaume de Fontenay, ambientato durante l’assedio di Sarajevo nel 1992 -93 e tratto dall’omonimo libro del reporter Paul Marchand. E Marchand lo sa bene cosa significa vivere quotidianamente tra le bombe, sotto i proiettili dei cecchini, tra i numerosi cadaveri per strada. La guerra ti entra dentro e non si spazza più via.
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Il giornalista francese, interpretato da Niels Schneider, sempre in prima linea, sarcastico, spesso arrogante nell’affermare senza remore le sue opinioni, vive visceralmente il conflitto, senza il distacco professionale dei colleghi, criticando aspramente l’indifferenza della comunità internazionale verso la guerra di Bosnia.
Sympathy for the Devil – La quotidianità della guerra
Come in un documentario di guerra per il suo realismo a tratti insostenibile, il regista segue Marchand, inviato a Sarajevo per quattro radio francofone, sulla sua Ford Sierra sfrecciare lungo il viale dei cecchini – strada di Sarajevo divenuta famosa per la presenza costante di tiratori scelti appostati nelle vicinanze – di corsa verso il luogo di una strage, all’obitorio a contare i morti, a trasportare feriti all’ospedale o dai cecchini serbi a cercare risposte alle sue domande spinose. Con l’immancabile sigaro cubano tra le labbra, cappellino di lana in testa e la sua tipica faccia tosta, Marchand non si accontenta di raccontare la cronaca edulcorata di un conflitto che vede ogni giorno centinaia di morti tra i civili, studenti, bambini, donne e anziani, ma vuole fare luce sulla disumanità, sull’apatia del locale comando ONU, urlare al mondo intero che si muore nell’indifferenza.
Faccia a faccia con il diavolo ogni giorno, come recita il titolo del film che non ha nulla a che vedere con il successo dei Rolling Stones, de Fontenay racconta la “normale” quotidianità della guerra, ci porta dentro l’assedio, durante il quale tutti cercano di andare avanti nonostante i pericoli costanti: ci si diverte nei pochi locali notturni, si balla come se non ci fosse un domani, perché effettivamente forse non ci sarà, e ci si innamora. Come la traduttrice serbo – bosniaca Boba (Ella Rumpf, Freud) che intreccia una relazione con Marchand e lo segue nell’ordinario inferno. Anche lei fiera e coraggiosa tanto da rifiutare anche solo il pensiero di abbandonare il suo paese nonostante l’odore di morte costante che in una significativa immagine Marchand cerca di coprire con l’odore del sigaro. “Cosa aspetti? Che siano tutti morti?”, le chiede il giornalista, “Qualcuno deve restare per spegnere la luce”, gli risponde rassegnata Boba.
Scoprire Paul Marchand
Il film non ci racconta nei minimi dettagli le dinamiche politiche del conflitto bosniaco ma si concentra su chi paga davvero le conseguenze della guerra, attraverso le immagini crude dei feriti per strada – ma il regista rifiuta le inutili morbosità – di giovani vite spezzate come un gruppo di studenti trucidati senza pietà, e attraverso le urla strazianti di una madre che stringe tra le braccia il proprio bambino colpito in casa dalla pallottola di un cecchino e la corsa disperata in ospedale di Marchand per tentare inutilmente di salvarlo. È proprio la crudezza e la “semplicità” di questo racconto a rendere più forte l’impatto emotivo che solo le cronache di guerra possono far provare.
Un ritratto vero, sincero, di una figura come quella di Paul Marchand, poco conosciuta, almeno in Italia, che questo film ha il pregio di portare alla luce raccontando non solo il giornalista ma anche l’uomo che dietro una corazza di cinismo, che attirava spesso le antipatie dei colleghi, nascondeva una profonda fragilità. E gli “occhi” di Marchand, il suo onesto giudizio, raccontano senza filtri non solo la guerra bosniaca ma, in un certo senso, tutti gli ingiustificati e ingiusti conflitti.