Venezia 79 – TÁR: recensione del film di Todd Field con Cate Blanchett
Lydia Tár è una delle più grandi direttrici d'orchestra al mondo. Eppure, in concomitanza con la registrazione della sua ultima sinfonia, il suo mondo sta per collassare...
TÁR – in concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2022 – inizia con il piglio del film biografico: nell’incipit vediamo la straordinaria direttrice d’orchestra di fama mondiale Lydia Tár parlare a lungo con il giornalista Adam Gopnik (quello vero) durante una discussione al New Yorker Festival, dove la donna viene presentata essenzialmente come un’incarnazione femminile di Leonard Bernstein: prodigio del pianoforte da ragazza, estremamente comunicativa, brillante in tutto ciò che fa. Tár è una stella, sotto ogni punto di vista.
Per approcciarsi al nuovo film di Todd Field (di nuovo dietro la macchina da presa dopo 16 anni di assenza) non è necessario sapere già chi sia questo genio della composizione, per un semplice motivo: Tár è un personaggio di fantasia. Dopo mezz’ora di film, tuttavia, si faticherà a crederlo: la sua esistenza, la sua psicologia e la sua carriera sono raccontate con una minuzia di particolari sbalorditiva. Ci sembrerà di conoscerla, di averne sicuramente letto da qualche parte, di aver sentito parlare della sua relazione con la violinista Sharon e di aver guardato su YouTube una delle sue ipnotiche performance.
TÁR: una questione di tempo, armonia e potere
Se parliamo di verosimiglianza e credibilità, va da sé che dietro la patina di perfezione ed equilibrio si nasconda altro: la dea della musica Lydia Tár è una persona che sbaglia, è enigmatica, in gioventù è stata oggetto di bullismo. C’è sicuramente qualcosa del suo passato che la tormenta, che la rende fragile e impreparata al confronto con se stessa. È qui che la pellicola cambia registro, aderendo agli stilemi del thriller e persino a quelli dell’horror, anche ma non solo attraverso l’utilizzo “sonoro” di elementi disturbanti per lei alieni: un frigorifero che fischia, una nota vaga proveniente forse dall’appartamento dei vicini, l’urlo straziante di una donna durante una corsa al parco.
Cupi segnali di un poderoso tracollo, oltre che della definitiva emersione dei problemi che trafiggono la sua quotidianità. Tra una prova orchestrale e l’altra scopriamo che Tár gestisce un programma di borse di studio per donne amministrato da un fastidioso direttore d’orchestra, e che di questo progetto pare facciano parte varie giovani studentesse con cui Tár ha intrapreso rapporti extralavorativi. Il dialogo con la sua assistente, poi, è attraversato da continue tensioni inespresse destinate a deflagrare, e a tutto questo si aggiunge la persecuzione da un altro ex pupillo ossessionato da lei. L’armonia, faticosamente costruita con anni di studio e dedizione, andrà irrevocabilmente in pezzi.
TÁR: il ritratto dettagliato di un’artista prometeica
Il lento e ipnotico incedere del film di Field permette di riflettere su diversi aspetti. Sul concetto di diritti femminili ed eguaglianza, ad esempio, perché come ha ricordato la stessa protagonista Cate Blanchett (interpretazione colossale, la sua, forse da Coppa Volpi veneziana e sicuramente da nomination ai prossimi Oscar) “nell’arte non esiste l’equivalente al femminile della parola Maestro, appellativo con cui viene costantemente chiamata Tár”. Non a caso nel film la protagonista ricorda come le grandi direttrici che l’hanno preceduta alla direzione della Filarmonica di Berlino – Boulanger e Brico – siano sempre state considerate “ospiti”, come se il ruolo fosse esclusivamente riservato agli uomini.
Sul tavolo di questo rarefatto dramma restano poi altre questioni, che hanno essenzialmente a che fare con il mondo del lavoro, i compromessi a cui si è disposti a scendere e i rischi che si corrono nella società contemporanea. TÁR è – per quanto questa descrizione possa avere senso – un’opera “completa”, piena. Il primo grande film del concorso di Venezia 79, quello perfetto per la stagione dei premi e che ci sembra impossibile possa restare escluso. Basta pensare alla complessità della sceneggiatura, o alla fotografia “epica” di Florian Hoffmeister. Basta pensare alla profonda umanità di questa discesa agli inferi, un’esperienza immersiva destinata a restare impressa nello sguardo e nella memoria dello spettatore come le tangibili ossessioni di Lydia Tár.