Terminal (2018): recensione del film con Margot Robbie
La cameriera e spogliarellista Bonnie è determinata e spietata, ed è disposta a tutto pur di portare a termine il suo piano di vendetta. Anche a uccidere, tradire e manipolare il prossimo.
Un giorno, all’improvviso, l’aiuto regista Vaughn Stein – dopo aver assaporato il mondo dei set cinematografici grazie a svariate mansioni secondarie, anche al fianco di Guy Ritchie (in Sherlock Holmes) e Christopher Nolan (in Batman Begins) – ha un’idea: mettersi in proprio, scrivendo e dirigendo un lungometraggio neo-noir. Ha tutto per poterlo fare: conosce a memoria frame dopo frame e sequenza dopo sequenza tutte le filmografie di Tarantino, Refn, Robert Rodriguez, oltre ovviamente al medesimo Ritchie. Il cinema post-moderno e post-tutto è – appunto – tutto nella sua testa, a portata di mano.
L’idea diventa ancora più intrigante quando decide di rendere la sua opera una sorta di trasposizione moderna di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll. Ma vuole che tutti lo capiscano, e per questo esplicita a più riprese, nel suo copione, questo importante riferimento culturale. Il resto lo fa qualche piccola e ben assestata botta di fortuna: Margot Robbie che si innamora del progetto e decide di produrlo, ad esempio; o la possibilità di scritturare Simon Pegg e il redivivo Mike Myers, alzando l’asticella qualitativa del cast. Ed è così che nasce Terminal, in Italia disponibile su Sky e Amazon Prime Video da maggio 2021.
Terminal: storia di un’elaborata e crudele truffa
Il risultato è un pastiche di personaggi da fumetto, struttura narrativa hard boiled e assurdità di varia natura servite come complessi enigmi. Un cartone nero, in buona sostanza, privo di qualunque sfumatura umoristica. Se uno dei modelli di riferimento (cosa che appare abbastanza evidente) è Sin City, di quel paradigma la pellicola di Stein assorbe soprattutto i difetti: la totale freddezza, in primis, ovvero l’impossibilità di una qualsiasi immedesimazione da parte del pubblico. Eppure il gioco sembra intricato al punto giusto, visto che si parla di una cameriera/spogliarellista che conduce una pericolosa doppia vita coinvolgendo nelle sue spire un’umanità varia e ben assortita.
Tutti i personaggi prendono vita in quella che sembra una vasta stazione ferroviaria spopolata, in cui un custode zoppicante fischietta “Danny Boy”. Fuori, il mondo è una metropoli distopica, tutta luci tremolanti e marciapiedi inondati di neon. Un universo iperstilizzato e saturo, caricato ma soprattutto caricaturale. Ed è in fondo qui che Terminal si arena mestamente: il sottobosco di mercenari avidi, femme fatale e malati terminali è troppo manierista, esibito e derivativo per essere preso sul serio, e al di là dell’esercizio di stile la sensazione è quella di un prodotto eccessivamente pretenzioso che scatena in chi guarda inevitabilmente un effetto diametralmente opposto a quello desiderato.
“Chi dice che il mistero è un’arte perduta?”
Certo, si potrebbe, dire, ma c’è Margot Robbie. In parte l’obiezione può essere accolta: l’ormai lanciatissima attrice australiana è qui onnipresente, il film è totalmente ritagliato su di lei e sul suo ormai consolidato ruolo di badass imprevedibile. È, ancora, un personaggio femminile che fa l’impensabile e dice l’indicibile, mentre attorno a lei chiunque parla in uno stile a metà tra The Snatch e Trainspotting. Margot qui è doppiogiochista, manipolatrice, falsa, cinica e traditrice. In estrema sintesi, è invincibile e irresistibile, qualunque outfit indossi e qualunque espressione faccia. Ma, come già accaduto in Birds of Prey, non può essere un solo carattere a reggere tutta la vicenda, se manca un canovaccio narrativo convincente.
E Terminal procede eccessivamente a strappi, badando troppo alla forma più che alla sostanza. Non basta conoscere le regole base del pulp, del thriller di ultima generazione o del noir che fu; servirebbe anche una scintilla di vita propria, un segnale di personalità che non può essere sostituito da un – nelle intenzioni – clamoroso twist finale. Nel corso del film, ricorre a più riprese un’espressione relativa alla “perduta arte del mistero”. Ecco, siamo d’accordo: Vaughn Stein in Terminal avrebbe voluto imbastire una storia maledetta e piena di incognite, da ambientare in una perfetta città del peccato. Col materiale a disposizione, tuttavia, la montagna ha partorito un topolino: un facsimile superfluo e senza una vera e propria anima.