Venezia 77 – Terra desolata: recensione del film di Ahmad Bahrami
Con Terra desolata Ahmad Bahrami parla di un'umanità egoista, miserabile, disperata, che raramente è stata descritta in modo così efficace, così brutale e quotidiano.
Terra, deserto, vento, il rumore di un vecchio carro trasportato da un vecchio quadrupede, guidato da un uomo coperto di stracci, il volto tagliato dalle intemperie lunghe una vita.
Non si può certo dire che l’inizio di Terra Desolata (Dashte Khamoush il titolo originale, The Wasteland quello internazionale) di Ahmad Bahrami sia un inizio qualunque, non può esserlo perché, fin dai primi istanti, lo spettatore si trova travolto da un universo in cui la narrazione si inchina ad una dimensione sensoriale di assoluta potenza, ad un bianco e nero elegante ed incredibilmente espressivo di Masoud Amini Tirani.
La regia di Bahrami si snoda dentro e fuori lo sguardo del protagonista, del sottomesso e poverissimo Lotfollah (Ali Bagheri), sorvegliante di una piccola fabbrica di mattoni in una sperduta e diroccata valle iraniana.
Lotfollah è da quarant’anni in quella fabbrica, in quel piccolo pueblo dove ogni giorno è uguale all’altro, dove la fatica, la fame e la disperazione, sono compagne dolenti di un microcosmo curdo, azero, turco, diviso da lingua e antiche faide, ma accomunato dalla fame e dalla mancanza di futuro.
Terra Desolata ha nel suono il vero grande protagonista
Con Terra Desolata Ahmad Bahrami crea un film sulla dimensione operaia di un medio oriente allucinante e poverissimo, in cui la natura, gli elementi, avvolgono una piccola isola, in cui i suoni del lavoro, degli elementi, avvolgono un’umanità egoista, miserabile, disperata, divisa da un classismo che la cinematografia e la letteratura occidentali ben conoscono, ma che raramente è stato descritto in modo così efficace, così brutale e quotidiano.
Lotfollah, sorta di sopravvissuto di un’epoca che non esiste più, spaventapasseri vittima di un padrone (Farrokh Nemati) falso, mentitore e spietatamente egoista, si aggira come uno spettro tra famiglie di un proletariato alieno da ogni ribellione, da ogni velleità di coscienza di classe.
Stupendo nella regia, nel dispositivo formale che rende ogni immagine un quadro disperato, Terra Desolata ha però nei suoni curati da Hasan Mahdavi e Vahid Razavian, qualcosa di assolutamente fantastico. A conti fatti un protagonista aggiunto.
Tra Pasolini e Verga, un film universale
Il vento, il vento di un deserto la cui polvere quasi si può sentire e toccare, i rumori di un mestiere antico e sfibrante, le ruote della carriole, il fuoco dei forni, i suoni dei randagi e del comune desinare di quest’umanità pezzente, diventano tutti assieme forse il vero, grande protagonista del film. E suppliscono in modo fantastico ad una colonna sonora sostanzialmente assente, creano una sinfonia spezzata da un silenzio terrificante.
Il tutto, assieme, rafforza la profonda connessione dell’opera di Bahrami con il neorealismo italiano, in particolare con quello di Pasolini, che come il regista era interessato ad una narrazione naturalista, spietata ma mai priva per questo di universalità o di momenti di alta poesia visiva, di una struttura narrativa coerente.
Terra Desolata propone da questo punto di vista, le cronaca dell’ennesima sconfitta degli ultimi, di un Loftallah incapace di ribellarsi, come le famiglie di morti di fame e fatica di quella fabbrica fuori dal mondo, ivi compresa la bella e triste Sarvar (Mahdieh Nassaj), simbolo di una femminilità ad un tempo cinica e rassegnata.
Il film, nonostante un ritmo lento, contemplativo, ha nella sceneggiatura un piccolo gioiello che ricorda gli scritti di Verga, la teatralità di Pirandello, avvolge quello che pare un racconto della povertà degli abiti sacerdotali di un iter sulla doppiezza, sulla falsità, sulle maschere, sulla ritualità del vivere.
Nei silenzi, nei dialoghi di Terra Desolata, rivive la realtà di una dimensione storica in cui più che le armi, la violenza, sono l’astuzia, la povertà, il miraggio di un domani meno povero, le migliori armi nelle mani della borghesia (grande o piccola che sia), sempre puntuale nel mettere il mondo dei disperati l’uno contro l’altro.
Ma più che un film storico, il film di Bahrami è un film sulla storia, sugli uomini, sulla ruota tra ricchi e poveri, città e campagna, sulla sconfitta degli ingenui perché troppo umili, dei perdenti perché incapaci di non essere codardi, di sfuggire da una servitù che è regno dell’anima.