Terrifier 3: recensione del film di Damien Leone
Terzo capitolo dell'omonimo franchise, Terrifier 3 è un'orgia di violenza senza freni e un cattivo da antologia. Regia di Damien Leone, in sala dal 7 novembre 2024.
Due tipi di horror, due modi di costruire la paura. L’orrore è atmosfera, sostenuta e alimentata dall’intervento sull’ambiente, le psicologie e l’emozione per suggerire il senso paranoico di un mistero nascosto nell’ombra e pronto a colpire in qualsiasi momento. O l’orrore è un fatto tangibile, brutale e più esplicito. L’orrore di Terrifier 3 è maledettamente tangibile. Regia di Damien Leone, terzo capitolo della popolare saga slasher dedicata all’innarestabile serial killer dalla mimica esuberante Art the Clown, arriva nelle sale italiane il 7 novembre 2024 per Midnight Factory. Il modo giusto di descrivere la furia omicida del protagonista è di sottolinearne la dedizione nel perseverare sul sentiero di un Male assoluto e senza rimorsi, raggiungendo vette di profanazione e sacrilegio laico (non per questo meno scioccante) importanti. Probabile che con il quarto film, se mai arriverà, non gli resterà che fare danni nello spazio, perché sulla Terra ha raggiunto il punto di saturazione; per quanti ne uccide, per come lo fa, non è possibile spingersi oltre. Con David Howard Thornton, Lauren LaVera, Samantha Scaffidi e non solo.
Terrifier 3: il clown omicida e la ragazza
Con tutti i limiti dell’etichetta, Terrifier 3 è un solido esempio di narrazione slasher, declinazione ultra sanguinolenta dell’horror in cui un pazzo omicida insegue e uccide un gruppo di persone servendosi di armi da taglio o di qualunque strumento possa servire il sadico scopo. Damien Leone ha rispetto per il genere e per le convenzioni, ma sa piegarle alle sue necessità. Prima di tutto, di maniaco omicida qui non ce n’è soltanto uno. Ovviamente, gran parte del lavoro sporco tocca a Art the Clown (David Howard Thornton), pagliaccio omicida affamato di sangue e libero di muoversi tra la vita e la morte – non muore, semplicemente non muore – con la collaborazione però di ciò che resta di Victoria Heyes (Samantha Scaffidi), sopravvissuta al primo film e finalmente partner nel crimine.
Art non parla, ma sa farsi capire. La mimica ironica e l’espressività sopra le righe sono un sarcastico contrappunto alla sua sete di sangue, lo sberleffo definitivo all’umanità e ai sentimenti calpestati delle vittime. Non c’è un’esplicita pretesa di pulizia morale a ispirarne l’opera (Saw), né un puro e meccanico desiderio di annientamento (Halloween, madre di tutti gli slasher). Michael Myers, la macchina della morte al centro del film di Carpenter, era un’impenetrabile maschera maligna, instancabile e difficile da decifrare, apparentemente inscalfibile. Il suo carisma poggiava sulla granitica impassibilità del suo essere Morte incarnata. Art, nonostante il potere ultraterreno che lo sorregge e lo guida nel suo sentiero di morte, è una costruzione più umana e definita psicologicamente. Uccide senza preoccuparsi troppo del perché, ma è chiaro che si diverte un mondo a farlo. La sua fame è istintiva e smodata, l’arsenale a sua disposizione ricchissimo: armi da fuoco, asce, esplosivi. Tutto serve allo scopo, quando si tratta di colpire ciò che di innocente e nobile c’è al mondo.
Se l’interiorità del killer resta opaca, Terrifier 3 ne circoscrive l’operato costruendogli attorno un clima sordo a qualsiasi remora morale o di opportunità circa la rappresentazione della violenza. Non importa perché Art uccide, purché uccida. A fronteggiarlo c’è rimasta solo Sienna (Lauren LaVera), che il terzo capitolo ricompensa mettendola al centro della storia. Appena uscita dal manicomio, turbata dallo shock post-traumatico ma fiduciosa di fare la pace con il passato allontanando una volta per tutte il fantasma di Art, trascorre il Natale in compagnia dei familiari. C’è la zia Jess (Margaret Anne Florence), il marito Greg (Bryce Johnson) e la nipotina Gabbie (Antonella Rose). Non va come sperava, Art ritorna. Per Sienna – e di conseguenza per lo spettatore – è la madre di tutte le profanazioni: un Natale di sangue. La profanazione è il cuore di Terrifier 3. Nulla interessa di più a Damien Leone.
Il Bene raccontato dal Male
Cos’è sacro, agli occhi di Damien Leone? Il cinema. E poi? Poco altro oltre il cinema. Terrifier 3 è un horror di inaudita violenza animato da forze opposte e decisive. Fiducia nel cinema e nella possibilità, servendosi di ogni mezzo necessario – narrativo, espressivo, tematico – di mettere l’uomo di fronte ai suoi demoni per trovare, nella rappresentazione del male, evasione e un po’ di catarsi. E furore iconoclasta, scrupoloso, incrollabile e senza remore. Non c’è modo di sottrarsi alla furia di sangue di Art e, più sotterraneamente, alla visione cupa e ironica di Damien Leone: niente tabù, istituzioni o sacralità di un sentimento all’altezza della sfida. Sia la magia del Natale – non è un caso che il tempo del film sia proprio questo, è l’oltraggio definitivo – l’innocenza di un bambino o la calorosa illusione che la famiglia offra un riparo dalle tempeste della vita. Finisce sempre allo stesso modo: Art uccide.
Sforzandosi – tra i piaceri del film c’è anche l’idea di raccontare etica professionale e modus operandi di un killer – di trovare ogni volta un modo nuovo, spaventoso e intensamente doloroso di farlo. Se le motivazioni del protagonista – la storia è ugualmente il punto di vista dell’assassino e della giovane donna che sembra avere le carte in regole per fermarlo – non sono definite al di là di una nichilistica volontà di distruzione, Terrifier 3 ne offre parziale giustificazione nell’orgoglio con cui si diverte a sbriciolare tutto ciò che generalmente consideriamo nobile e sacro. Bisogna sapere quando fermarsi; il nichilismo è un lusso che può concedersi il personaggio, certo non il regista e sceneggiatore che gli sta dietro. Damien Leone ama la provocazione estrema, ma il suo è un cinema ultraviolento e sboccatissimo che ci ricorda la bellezza di un sentimento opponendogli, con perverso umorismo, la poesia nera del Male che la aggredisce e la fa a pezzi. Tessere l’elogio della famiglia, squartandola. Questa è l’idea.
Dipende molto dall’espressività e dal lavoro coreografico di David Howard Thornton. Offre al pubblico il ritratto di un cuore assetato di morte attraverso una performance puramente fisica; rifiuta le pastoie del linguaggio per comunicare in maniera più primordiale e, va da sé, spaventosa. Owen Gleiberman, nel recensire il film per Variety, ne ha descritto il lavoro in maniera così perfetta che merita di essere riprodotta: è come, ha detto, Marcel Marceau posseduto dallo spirito di Charles Manson, con un pizzico di Divine a completare l’opera. È un peccato che al film manchi la voglia – non è questione di tempo, è una scelta – di affiancare, all’esposizione di una furia omicida senza freni e diabolicamente divertente, una struttura narrativa, un lavoro sulle psicologie, più forte e originale. Terrifier 3 cerca di bilanciare la radicalità della messa in scena del Male con uno storytelling ordinario e piuttosto lineare, ma il contrasto non è dei più felici. Oltre l’emozione e lo shock, davvero forti, sul film aleggia lo spettro di potenzialità inespresse che, in retrospettiva e in parte, ne indeboliscono il godimento.
Terrifier 3: valutazione e conclusione
Oltre il male assoluto, Terrifier 3 fatica a definire una struttura narrativa corposa e uno studio più preciso sulle psicologie; soffre un po’ per questo la caratterizzazione di Lauren LaVera, perché Sienna e il racconto del suo tentativo di rimettersi in sesto, l’analisi del dopo shock, meritavano un altro spessore. D’altro canto, la furia dissacrante del film, la violenza e la sua rappresentazione, lasciano il segno. È sorprendente che un franchise arrivato al terzo capitolo sia ancora in grado di proporre un’emozione così pura e forte. Se è vero che, oltre lo shock, non c’è forse moltissimo, lo shock è di per sé incredibile.