TFF33 – God Bless The Child: recensione
Primo film presentato nella selezione ufficiale Torino 33 del 33. Torino Film Festival è il drammatico God Bless the Child, film sulla depressione e la necessità di crescere prima del tempo, diretto dai registi Robert Machoin e Rodrigo Ojeda-Beck, scritto con la moglie di Machoin, Rebecca Graham, e interpretato dai cinque figli della coppia, Harper (14), Elias (12), Arri (8), Erza (5) e Johan (2).
Il concorso si apre con una pellicola davvero intensa, sebbene sempre attorniata da un’atmosfera dolce e di meravigliosa purezza. L’intera giornata di cinque fratelli abbandonati per un giorno intero dalla madre, vissuto in bilico tra la spensieratezza dell’infanzia e la rassegnazione che la loro famiglia non potrà mai essere come le altre.
Harper, unica ragazza tra i cinque, è un’adolescente destinata a essere madre, troppo presto, per i suoi fratelli più piccoli. Passa gran parte del suo tempo ad accudire Johan, il più piccolo, con la stessa dolcezza e delicatezza di una vera madre, senza mai perdere d’occhio gli altri tre. Intorno a lei c’è un’area di giusta severità ma anche gentilezza e garbo verso i suoi fratelli più piccoli. Momenti di gioco a momenti di profondo e interiore dolore vengono alternati lungo l’ora e mezza di film, pellicola estremamente dilatata dal registro documentaristico.
God Bless The Child: Un film dove gli adulti sono bambini e i bambini sono adulti
Seguiamo passo passo, scena dopo scena, la giornata dei cinque, dal mattino fino alla veglia notturna. Un giorno estremamente dilatato, da dare l’idea che siano passate settimane, come se la macchina avesse voluto catturare più momenti insieme. Sapiente scelta registica che da un senso di routine e di abitudine dei fratelli nei confronti del comportamento irresponsabile della madre. Si passa da una camera fissa molto amatoriale a riprese decisamente più sofisticate, senza però perdere la sensazione del terzo occhio; infatti, la macchina da presa funge da identità invisibile, perennemente presente ma impossibilitata a partecipare, all’interno del quale lo spettatore può rispecchiarsi e provare svariate sensazioni, da quelle più gioiose alla rabbia verso l’impotenza nel vedere la drammaticità di quella situazione e non poter fare nulla, fino a provare la stessa rassegnazione dei fratelli Graham ormai abituati ai comportamenti infantili della propria madre.
Un film dove gli adulti sono bambini e i bambini sono adulti. La figura stessa dell’adulto in generale, oltre a quella della madre, è qualcosa che non appare mai se non raramente, di sfuggita, rappresentato quasi come un “mostro”, un estraneo pronto a turbare quella superficiale spensieratezza che i Graham tentano di mantenere.
A loro modo i bambini manifestano i loro stati d’animo, da quella piccola pausa di assoluto silenzio che si concede Harper, isolandosi da tutti per poi essere pronta a ricominciare, a consolare e distrarre i suoi fratelli, dall’impotenza di Arri nei confronti delle prepotenze del fratello maggiore Elias, o alla rabbia stessa di Elias sfogata nel suo cercare di essere uomo a tutti costi. Sentimenti come frustrazione e disperazione che un bambino non dovrebbe provare, non dovrebbe nemmeno conoscere, e che invece fanno parte della loro vita proprio come i momenti di gioco e spensieratezza, che rivediamo molto di più nelle rare solitudini di Erza e Johan, i più piccoli, quelli quasi lontani dal mondo duro e tagliente che li circonda. Eppure, nonostante questo, tutti, nel loro piccolo, cercando di darsi da fare, di aiutare e cercare di essere autonomi, dallo stendersi da soli il burro sui waffle al rifare il letto.
Un inquieto senso di disagio si respira per tutta la durata del film, tra approssimazione e abbandono. Sentimenti espressi dalla stessa tematica ma anche dalla straordinaria interpretazioni dei giovani attori, resa ancora più realistica dalla reale parentela. Rubiamo alcuni dei loro momenti più sinceri e intimi. Un bagno nella purezza dell’infanzia che al tempo stesso va in contrasto con il contesto all’interno del quale è inserito, appunto una situazione drammatica in cui entrambe le figure genitoriali mancano totale. Un padre quasi mai nominato, se non molto veloce nei ricordi di Erza, e una madre che non risponde al telefono, pensando di risolvere tutto lasciando il numero della nonna, numero che Harper non chiamerà mai.
La chiusura del film è quanto più di perfetto e ciclico che possa avere una pellicola come questa. Il ritorno della donna. Un ritorno silenzioso e freddo, sotto lo sguardo stanco della figlia adolescente, alle prese tra piatti sporchi e lavatrici, dopo aver fatto addormentare i fratelli. Un lungo momento di silenzio per Harper mentre, sola in cucina, rimane a fissare il vuoto, a pensare. Nella stanza da letto la mamma è stesa. Non la vediamo mai in volto. Un mero e lento “scusa”, prima che Harper inizi a cullare anche con una ninna nanna, proprio come se stesse facendo addormentare un quinto fratello. In questo piccolo attimo di infinita dolcezza, un dolore profondo attraverso lo spettatore della pellicola. La sofferenza, la rabbia. Il potere di quella depressione che ha provato ad ammalare una famiglia intera, ma non ci è riuscita. La vita va avanti, e anche se il tempo per i giochi è finito, si ha ancora qualche attimo per l’ultima storia della buona notte.