Thanksgiving: recensione dell’horror diretto da Eli Roth

Thanksgiving, nato come un fake trailer per Grindhouse di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, è ora un violentissimo horror diretto da Eli Roth. Corpi maciullati, consumismo e l'America dei Padri Pellegrini: in sala dal 16 novembre 2023.

Anche le vie del cinema sono infinite. Thanksgiving, in sala dal 16 novembre 2023 per una distribuzione Eagle Pictures, regia di Eli Roth e con Patrick Dempsey, Gina Gershon, Rick Hoffman, Addison Rae e Nell Verlaque, è letteralmente il film che visse due volte. Nasce, intorno al 2007, come fake trailer per Grindhouse di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez. Qualcosa, nell’idea, sedimenta nella coscienza autoriale di Eli Roth, che si serve dello spunto per scrivere il soggetto con Jeff Rendell (sua anche la sceneggiatura). Un innocente scherzetto cinefilo messo a disposizione della visione artistica altrui basta per plasmare un glorioso bagno di sangue di un’ora e tre quarti circa, costruito attorno alla più sacra e partecipata festività americana. Non il Giorno del ringraziamento, come lo spettatore potrebbe innocentemente pensare fermandosi al titolo. No, il Black Friday.

Thanksgiving: una festa di sangue

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Il Giorno del ringraziamento è una ricorrenza laica, di ispirazione religiosa, festeggiata in varie parti del mondo e in particolare in Nord America. Negli Stati Uniti – lo sfondo di Thanksgiving è Plymouth, Massachusetts – si celebra, come da tradizione, il quarto giovedì di novembre. Disgraziatamente per i protagonisti del film, è la vigilia del Black Friday. Il signor Right (Rick Hoffman) è il titolare di un grosso negozio, assediato da una folla inferocita che preme davanti alle porte sbarrate in attesa di entrare e dare il via al saccheggio. Le cose degenerano, la folla sfonda; la spaventosa orgia consumista sfocia in tragedia. Ci scappano molti feriti e qualche morto perché la gente, sconvolta dalla frenesia e dall’impazienza, smarrisce la razionalità, il rispetto per gli altri e il senso di umanità. Un anno dopo, in occasione delle celebrazioni del primo Ringraziamento dopo il disastro, un misterioso killer comincia a perseguitare alcuni dei sopravvissuti. Non li sceglie a caso, si concentra solo su quelli che considera i responsabili morali della mattanza. Vuole fargliela pagare, riservandogli il destino del tacchino ripieno che è il simbolo della festa.

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Plymouth è la città della Mayflower. Qui attraccò, nel 1620, la nave che portava nel Nuovo Mondo i Padri Pellegrini, fondatori delle prime colonie americane. Lo sguardo di Eli Roth è largo: abbraccia il passato e il presente del paese, la storia pubblica e le vicende private. Il killer si nasconde dietro una maschera di John Carver, governatore della colonia di Plymouth, uno dei più illustri passeggeri della nave. John Carver diventa l’emblema moralista e vendicatore dell’America puritana che si accanisce contro i suoi corrotti e materialisti eredi. Delle indagini si occupa il poliziotto con un’anima, lo sceriffo Patrick Dempsey. Lui c’era, la sera del massacro, al negozio, ma non ha potuto nulla, troppa gente impazzita. In tanti hanno pagato un duro prezzo: Jeff Teravainen, per esempio, lavorava lì e ha avuto la sfortuna di essere raggiunto nel momento sbagliato dalla moglie Gina Gershon, che voleva solo portargli da mangiare. Poi ci sono i ragazzi del posto. Alcuni di loro sono il target principale del killer.

Jessica (Nell Verlaque) è la figlia del signor Right. Era fidanzata con Bobby (Jalen Thomas Brooks) ma si lasciano dopo il disastro; lui scompare per riapparire in perfetta sincronia con gli omicidi. Jessica, Bobby, Gabby (Addison Rae), Evan (Tomaso Sanelli) avevano saltato al fila proprio perché amici di Jessica, la figlia del boss. Forse, con il loro comportamento strafottente, avevano aggiunto benzina sul fuoco, provocando un po’. Non basta a giustificare la sommossa, ma raccontatelo al killer. La sua vendetta è una violenza sofisticata. Non si accontenta delle sofferenze atroci che accompagnano gli omicidi. Manipola i cadaveri, dopo, per modellare la perfetta cena del Ringraziamento, servendosi di ciò che resta del corpo dei malcapitati. La smodata crudeltà del killer è la risposta brutale, moralista e folle a una società corrotta e anarchica. Ma è anche il retaggio di una visione d’autore, quella di Eli Roth, costruita sull’ossessiva spinta a forzare i limiti del rappresentabile, della violenza al cinema.

Una fantasia horror costruita su molti livelli

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Il film che visse due volte è anche un film doppio. Da un lato, Thanksgiving come puro esercizio slasher: la provocazione di un regista che si (e ci) interroga sulle possibilità offerte dal binomio cinema e rappresentazione della violenza. Spetterà alla coscienza e alla sensibilità dello spettatore decidere se e quanto il film si sia spinto troppo oltre. La violenza è furiosa, sboccata e disgustosa, talmente caricata, folle ed esasperata da risultare quasi divertente. Un divertimento nerissimo e molto perverso, è chiaro, che serve a bilanciare l’orrore, ad esorcizzarne lo shock e a rimettere le cose al loro posto.

Thanksgiving è l’omaggio che Eli Roth dedica a un certo tipo di cinema dell’orrore, quello che si diverte a profanare l’innocenza delle feste più amate – da Black Christmas ad Halloween, gli esempi sono tanti – ma non deve essere considerato un pretenzioso esercizio autoriale (in chiave horror) su violenza e rappresentazione. Vero che la filosofia del film è un po’ a metà strada tra la critica sociale di George A. Romero e l’inquietante cronaca dei sobborghi che tanto piace a John Carpenter, con una spolveratina di moralismo in stile Saw; del genere moralista per eccellenza, l’horror, la saga più moralista di tutte.

La priorità, la stella polare del film, al di là delle provocazioni estetiche, è per la verità molto più lineare: solido, provocante e sanguinolento intrattenimento. Thanksgiving si diverte a ridicolizzare la furiosa e cieca ossessione consumista dei nostri giorni, prendendo di petto le ipocrisie di un mondo votato al profitto e alla sopraffazione, in cui l’unico mantra è accumulare, prevalere e schiacciare. La vita e la morte sono un gioco, si fatica a riconoscere nell’altro un soggetto “pieno”, compiuto. Per questo è facile accanirsi sugli inermi: perché sono cose, non più persone. In fondo è proprio questa la perversa simmetria del killer, la sua assurda giustificazione morale: tratta le sue vittime come (dice lui) loro hanno trattato le vittime della sommossa.

L’America secondo Eli Roth – e la visione è tutt’altro che tranquillizzante – è un quadro a tinte fosche, caos sconclusionato con agli estremi dello spettro bigottismo (i puritani) e materialismo sfrenato. C’è anche una dimensione individuale che sta a cuore al film, il racconto dell’intimità e dei piccoli grandi segreti dei personaggi, che si sovrappone alla riflessione ad ampio raggio. La struttura narrativa del film è costruita su questo principio: scivolare progressivamente dal piano pubblico a quello privato e viceversa. Si è accennato al film che visse due volte, si è tirato in ballo il film doppio, ma non è esatto. L’orrore di Thanksgiving è una fantasia in tre parti: la violenza pura, la satira sociale, i dilemmi privati.

Thanksgiving: valutazione e conclusione

Tanta, forse troppa carne al fuoco. Il film lavora anche sugli eccessi di narcisismo e sull’invadenza dei social media, manipolandoli per fini narrativi e prendendosene gioco. La freschezza dei volti dei ragazzi, su tutti Nell Verlaque e Addison Rae (cantante e celebrità social), serve anche a questo. Talvolta la satira è affilata e precisa, talvolta più pigra. Il limite del film è il suo coraggio, l’ambizione di tenere insieme molti piani di lettura oltre a un’estetica violentissima e molto feroce. Funziona, nel complesso, perché Eli Roth ha un senso istintivo per gli shock e le pulsazioni acceleratissime del genere. La sua storia accumula molto e non restituisce con uniformità, ma l’audacia della proposta va apprezzata più delle eventuali debolezze.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 3
Emozione - 3

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