Venezia 77 – The Book of Vision: recensione del film di Carlo S. Hintermann
Primo film di finzione del raffinato documentarista Carlo S. Hintermann, The Book of Vision è il film d'apertura della Settimana internazionale della Critica alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia.
Dopo The Dark Side of the Sun, il sodalizio artistico tra Carlo S. Hintermann e Lorenzo Ceccotti (LRNZ) torna sul grande schermo, e lo fa con un fantasy colto e raffinato: The Book of Vision. Se nel documentario del 2014 entrambi firmano la regia, con questo film – scelto come apertura della Settimana della Critica a Venezia 77 – a dirigere il gioco è Hintermann, mentre Ceccotti si occupa del visual design e firma il magnifico poster.
The Book of Vision non è un film perfetto, dal momento in cui presenta un distacco evidente (e, a tratti, disturbante) tra un’indiscutibile qualità dell’immagine e una sceneggiatura che non sempre riesce ad esserne all’altezza. Si tratta di un’esperienza che non riesce ad essere totalizzante, poiché quando si inizia ad immergersi nelle atmosfere, c’è un sussulto di trama che non lascia allo spettatore la possibilità di godersi appieno il film. Forse la maniera migliore per vivere The Book of Vision è approcciarsi in maniera irrazionale all’estetica di Hintermann (e di Ceccotti, e di Terrence Malick che fa da produttore esecutivo), senza chiedersi il perché di alcune azioni e passaggi.
The Book of Vision: la Medicina umanistica
Il racconto di Hintermann e Marco Saura si svolge su due linee temporali, che si intersecano in un gioco di metempsicosi e persistenza dello spirito. Da un lato siamo in Università contemporanea, nella facoltà di Medicina, dove si reca l’ex-chirurga Eva (Lotte Verbeek) per fare delle ricerche. Dall’altro, siamo in un palazzo nobiliare prussiano nel 18esimo secolo dove la stessa donna è Elizabeth, una dama incompresa dal marito (Filippo Nigro) e segretamente innamorata del Dottor Johan Anmuth (Charles Dance), medico e filosofo incaricato di prendersi cura della sua famiglia.
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Il salto indietro nel tempo è introdotto proprio dalle ricerche di Eva, che si concentrano sul Libro della Visione, ovvero il trattato redatto da Anmuth sulla propria esperienza medica e sul suo approccio al paziente. Quello che si chiede Eva, infatti, è qual è stato il momento preciso in cui la figura del medico ha smesso di ascoltare i pazienti e ha iniziato a trattarli come corpi senza diritto di opinione e parola: insomma, quando la medicina ha smesso di essere umanistica per vestirsi dei rigidi panni della scienza pura. Naturalmente, l’interesse di Eva è influenzato dalla sua storia personale e – soprattutto – dal suo legame eterno con Anmuth e le sue cure.
Il Libro della Visione e le lettere
Via via che Eva prosegue nella lettura del Libro, aiutata anche dal suo tutor (Sverrir Gudnason), scoprirà un lato nascosto della vita di Anmuth che apre le porte a un universo decisamente meno scientifico, anzi fortemente determinato da forze soprannaturali. Centrale, a questo punto, diventano i personaggi di Maria (Isolda Dychauk), domestica del medico, e Valentin (Rocco Gottlieb), figlio prediletto di Elizabeth. Maria, in particolare, ha un rapporto privilegiato con la Natura segreta del bosco che circonda il palazzo, dove trionfa un grande albero magico abitato dalle ombre dei morti.
Proprio questa zona di confine tra vita e morte è l’elemento estetico più suggestivo di tutto il film, nel suo brulicare di presenze nascoste, nell’inquietante avanzare di creature misteriose, nell’assorbire corpi esanimi e restituirli al ciclo naturale del tempo. In questo passaggio, da una mentalità mistica alla fase storica in cui irrazionalità sarà repressa come retrograda e pericolosa, si avverte il cuore pulsante del film e della vita stessa. Nonostante gli sforzi di chi vuole razionalizzare ogni aspetto della Natura e la sua apparente vittoria, il mistero della Vita e della Morte persiste in tutta la sua energia primordiale.
The Book of Vision: una racconto per immagini
Una trama densa di spunti filosofici, non sempre ben verbalizzati nei dialoghi, ma che si presta a mettere in scena una serie di immagini memorabili. La cura del dettaglio e l’invenzione estetica, l’ispirazione nel creare momenti assolutamente originali e gli omaggi ben armonizzati nel contesto sono i veri punti di forza del film. L’eleganza della storia che si sviluppa nel 18esimo secolo, insomma, riesce a compensare le storture del piano narrativo del contemporaneo, che soffre – forse – di troppi tagli nel montaggio. D’altra parte si può anche comprendere la scelta di conservare le scene di maggiore suggestione visiva poiché sono queste a rendere The Book of Vision un prodotto che vale la pena di andare a vedere.
Tra visioni “à la Malick” e inquadrature a piombo che regalano la sensazione di tableaux vivants, dove l’immagine vive di movimenti prima impercettibili e poi evidenti, Hintermann adotta una regia strepitosa che in più di un momento lascerà il pubblico a bocca aperta. The Book of Vision è un film in cui la forma prevale spesso sul contenuto, ricco di spunti interessanti ma che avrebbero meritato uno sviluppo meno convenzionale (in linea d’altra parte con la loro resa). Resta tuttavia un’esperienza da fare in sala perché di rado si trova nel cinema (in tutto il cinema, non solo nel cinema italiano) una tale ispirazione estetica.