The Brutalist: recensione del film da Venezia 81
The Brutalist di Brady Corbet è la vera sorpresa di Venezia 81!
Ogni Festival ha la sua grande sorpresa, un’opera che non è tra le più attese e citate ma che poi, in seguito alla proiezione, si rivela addirittura la favorita per la vittoria del Concorso: quella della Mostra del Cinema 2024 è indubbiamente The Brutalist, la nuova epopea cinematografica – dura più di tre ore e mezza ed è realizzata in pellicola – di Brady Corbet con protagonista Adrien Brody. Questo film, realizzato dopo circa dieci anni di preparazione, è un azzardo autorale che divide ma non può lasciare indifferenti, è dispersivo ma intensissimo, bulimico e visionario, rivoltoso, rivoltante e viscerale.
The Brutalist: dalla dittatura esplicita al brutalismo sottile e sotteso
L’incipit di The Brutalist, molto interessante poiché fuori dal recinto del convenzionale, è associabile ad un altro film di questa Mostra, Quiet Life di Avranas – molto più minimalista, non dello stesso spessore ma ugualmente riuscito. Entrambi raccontano la fuga da una dittatura e l’approdo in una “terra promessa” apparentemente democratica che poi si rivela essere altrettanto stringente, seppure in maniera più sottile e meno esplicita.
Il sentimento anti americano piuttosto spinto di The Brutalist, rimanendo nell’attualità cinematografica, può invece ricordare Abbasi con il suo The Apprentice da poco presentato a Cannes, per la disillusione con la quale il sogno americano viene spogliato della sua ipocrisia e descritto come un vero e proprio incubo che genera sopraffazione e violenza – Adrien Brody è memorabile nel ruolo del protagonista, un architetto ebreo conturbante e controverso, vittima e allo stesso tempo intransigente creatore di conflitti.
L’inganno strutturale e la statu(r)a deformata della libertà
A partire da questi presupposti, Corbet mette in scena una biografia inventata che, quasi per coerenza concettuale, “finge” di cercare una solidità narrativa ma esplode abbastanza presto in una serie incontrollata di intuizioni registiche e di scrittura, in guizzi liberi e disordinati di oscurità e meraviglia. La seconda parte della storia, da molti definita confusionaria e identificata come il punto debole, è invece per questo la più visionaria e potente, il luogo astratto nel quale risiede la vera anima del film.
Nel suo procedere ampolloso c’è tutta l’ossessione per il monumentale e per i monumenti del Rublëv di Tarkovskij, ma qui la fissità del colossale (si) scompagina e la Statua della Libertà è rovesciata e gli edifici si deformano e si trasformano, anche nella lunga sequenza felliniana sui marmi di Carrara dove le immagini sono accompagnate da una voce sibillina che sembra provenire dall’aldilà. Il passaggio di un paesaggio sospeso e spettrale che rivela l’inquietudine (in)visibile del fuori campo, l’architettura insieme rigida e scomposta del grande cinema.