The day I found a girl in the trash: recensione del film di Michal Krzywicki
Al Fantafestival di Roma molti film si concentrano sulla rappresentazione di un mondo distopico straniante. Tra questi The day I found a girl in the trash, film sulla rinascita e la speranza.
The day I found a girl in the trash ci porta in un mondo distopico non troppo distante dall’attuale modernizzazione endemica della società, in cui i condannati vengono trasformati in androidi e privati della loro personalità e dei loro ricordi della vita precedente. Un attivista polacco vuole rompere la catena di omertà e accondiscendenza attraverso l’atto profano del suicidio pubblico, attraverso i suoi canali social. Un gesto che tenta di convogliare l’opinione pubblica sulla pratica disumana, ma che invece si configura come l’inizio d’un viaggio di scoperta del sé e dell’altro.
Il Fantafestival di Roma, manifestazione gratuita incentrata sulla promozione del cinema sci-fi, fantascientifico e horror, presenta The day I found a girl in the trash, film polacco di Michal Krzywicki uscito nel 2021 e che come impostazione scenica e diegetica si indirizza verso un genere dispotico cyberfuturistico, per poi virare quasi subito verso una tematica esistenzialista e intersoggettiva.
La rinascita del sistema-corpo in The day I found a girl in the trash
L’accanimento spasmodico sul corpo si manifesta come quella concezione dilatata di prigione simbolica del vero Io. L’androide si pone come la gabbia dell’esistenza congelata, che deve liberarsi dell’impedimento strutturale di provare emozioni e sensazioni. Nel momento in cui si ha l’annullamento della propria natura meccanica – rappresentata per Blue dalla rimozione del chip di funzionamento – si deve necessariamente iniziare un percorso di rinascita e di scoperta esistenziale e materica della realtà.
Se il corpo come entità si pone come protagonista del film, il tema della rinascita è la congettura edificante dell’essenza della storia, imperniata sulla questione fondata della degna esistenza dell’essere umano, in ogni sua forma. L’attivista Szymon vuole, attraverso la decisione di suicidarsi in diretta sulle piattaforme social, denunciare esplicitamente le pratiche disumanizzanti della trasmutazione forzata dei condannati in automi, promulgando soggettivamente una corsa verso la morte per cercare di fermare il giogo di una giostra mortifera ancora più grande e potente. L’azione di un singolo si pone come via salvifica per quella di molti. Szymon vuole essere l’incarnazione popolare del capro espiatorio, del martire insolvente che tenta attraverso il suo gesto di cambiare una nazione distopica che in realtà vuole rimanere ancorata alla sua imposizione e impostazione autocratica decisionale sulla vita e sulla morte dei condannati. L’incontro con Blue è emblematicamente profetico, imponendosi come l’incipit per una riscoperta del sé e delle proprie possibilità: con il suicidio si possono veramente salvare tante vite, oppure con la vita se ne può salvare una sola?
Happy new life
The day I found a girl in the trash è una storia di redenzione per immagini, inquadrature fisse che alternano campi medi e lunghi, inglobando i corpi in un ambiente atono e ossessivo, per poi dischiudersi – o rinchiudersi vorticosamente – in dettagli e primi piani, penetrando con l’obiettivo della macchina da presa in modo spasmodico l’immagine. Violando con il nostro sguardo i corpi dell’uomo e della donna protagonisti, negli scorci prospettici degli interni o in quelle ariose e luminose del mondo esterno, si esplica volontariamente il viaggio sensorio: la scoperta del proprio corpo avviene attraverso il tatto e il gusto, la corporeità si carica di una valenza fisica e materica che si fa concreta nel momento in cui a Blue viene staccato il chip, mentre Szymon decide di prendersi cura dell’androide. L’inneggiare all’anno nuovo, il pressante augurio “Happy New Year” che viene rivolto al protagonista e il riferimento costante ad un nuovo inizio sono la dimostrazione metaforica della struttura portante del film, a cui il regista Michal Krzywicki si affida in un rimando neanche troppo velato a quello che la storia vuole mirare: la rappresentazione di un mondo che deve ricominciare, un nuovo percorso espositivo di essenze e esistenze, da affidare al medium cinematografico, imperniato proprio su tale esplicitazione continua. Il pathos deve mimetizzarsi e contenersi in un gioco attoriale che probabilmente non riesce a creare un’enfatizzazione della componente diegetica, ma che ricalca, con la sua pacatezza moderata, i piccoli gesti, i dettagli emotivi che nascono, crescono e si rincorrono in un susseguirsi di suono, sensazioni e colori in costante divenire.