The Elevator: recensione del film di Massimo Coglitore
Dopo Piano 17 di Manetti Bros. e The End? L'inferno fuori, prodotto dai due fratelli-registi, The Elevator di Massimo Coglitore ripropone la chiusa ambientazione di un ascensore.
The Elevator, per la regia di Massimo Coglitore, si avvicina a un’idea cinematografica di respiro statunitense. Questa caratterizzazione ha reso la pellicola curata da un punto di vista formale ma carente nei contenuti e nella struttura narrativa: la sceneggiatura non è sufficientemente salda da reggere l’impianto registico, causando un depotenziamento della suspance drammatica su cui si basa l’intera trama della pellicola. Il soggetto di sceneggiatura è sufficiente a reggere i tempi narrativi di un cortometraggio o di un mediometraggio; diversamente, come accade nel film, la durata di un lungometraggio costringe la sceneggiatura di Mauro Graiani e Riccardo Irrera a dilatare i propri tempi scenici, riducendo notevolmente il pathos degli eventi.
Il soggetto di The Elevator segue le vicende di Jack, conduttore televisivo di un quiz game (simile per struttura di domande e di strategia di gioco al conosciuto Chi vuol essere milionario?), sequestrato da una donna, Katherine, all’interno dell’ascensore del proprio palazzo durante la serata dei festeggiamenti del Labour Day. La donna, resa folle da un dolore del passato, rivolge a Jack una serie di domande: l’uomo per una volta diventerà concorrente di un quiz in cui in palio è posta la salvezza della propria vita. Oltre alla dilatazione dei tempi narrativi, uno tra i principali problemi della sceneggiatura riguarda il nucleo del racconto, ovvero il sadico quiz che la donna rivolge all’uomo. La follia di Katherine è sottolineata anche dal personaggio di Jack e le domande poste dalla donna rivelano un’assenza di logica deduttiva e argomentativa; molte delle domande sintatticamente sono state scritte seguendo la logica dell’indovinello di Carroll (invero lo scrittore inglese Lewis Carroll): in Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie il Cappellaio Matto rivolge un indovinello ad Alice, Why is a raven like a writing desk? (Perché un corvo è come uno scrittoio?): Lewis Carroll aveva formulato la domanda come retoricamente priva di risposta perché proveniva dalla folle mente del Cappellaio (soltanto un folle potrebbe capire e dare una risposta a una domanda partorita dalla follia). I lettori del romanzo, in un atto di fanatica pretesa artistica, obbligarono lo scrittore a creare ad hoc una risposta all’indovinello. La medesima dinamica accade in The Elevator: Jack riesce sempre a capire l’irrazionale ragionamento alla base delle domande poste da Katherine senza alcuno sbaglio e alcuna difficoltà, incrinando la sospensione di incredulità nello spettatore.
Un quiz game composta da domande sadiche ma retoricamente inefficaci
Un ulteriore problema in sceneggiatura, che causa la frattura completa della sospensione di incredulità, è il bilanciamento delle forza in scena: a seconda delle necessità di trama Katherine si dimostra in grado di compiere con disinvoltura azioni fisicamente faticose e complesse oppure fallisce in colluttazioni che detonato la fragilità fisica della donna: un’alternanza che denota la fragilità delle soluzioni narrative scelte durante la fase di scrittura del film. Il tema dell’alternanza è – invece – intelligentemente usato in sede di montaggio: molte scene sono costruite tramite efficaci parallelismi tra l’azione ripresa nella location dell’ascensore e i movimenti di Jack effettuati durante la registrazione di una puntata del quiz game mandata in onda in televisione nel momento stesso in cui l’uomo è vittima del sequestro di Katherine: il montaggio speculare dona dinamismo a un ambiente, l’ascensore, altrimenti ristretto (l’esempio più efficace al riguardo è una costruzione temporale ciclica: Jack sbottona la giacca a conclusione del quiz game e ugualmente, in sede di montaggio, la scena mostra Jack toglie la giacca prima di entrare in ascensore).
Ugualmente efficace, nel finale, è la scelta registica di annullare i tempi dell’intreccio narrativo dal momento che il tempo registico coincide con il tempo della narrazione. Registicamente piacevoli sono i primi piani e i dettagli sui volti dei personaggi e l’uso equilibrato del piano olandese che metaforicamente amplia la geometria ridotta dell’ascensore. Il citazionismo biblico (la legge del taglione è citata letteralmente tramite le parole del Levitico), i rimandi letterari (Katherine e Jack cantano la filastrocca musicale Itsy Bitsy Spider – la medesima filastrocca è citata anche nel recente horror Noi di Jordan Peele) e i riferimenti cinematografici al tema della violenza e della vendetta (Kill Bill e Les diaboliques – in The Elevator è presente un piccolo errore cronologico riguardante il film francese) risultano fini a loro stessi; malgrado questa debolezza, a inizio pellicola la messa in scena dell’intento citazionistico del film è strutturalmente valida. Il regista riprende un dialogo tra tre soggetti mentre alle loro spalle la televisione trasmette un video privo di audio, con presenza di sottotitoli in lingua inglese: tramite i movimenti di macchina sui tre personaggi il regista riesce a isolare nei sottotitoli sostantivi e verbi in riferimento alla religione (Bible), alla poesia (read, poetry, music) e al dolore (struck me) che semanticamente ritorneranno nel corso della narrazione.
La recitazione degli attori riesce in parte a trasmettere la giusta dose di ansia e di attesa: Caroline Goodall, nel ruolo di Katherine, incarna perfettamente il dolore e la follia che il personaggio richiede; di contro, James Parks, nel ruolo di Jack, trasmette nella comunicazione non verbale una sofferenza minore di quanto richiesta (una sofferenza psicofisica visivamente resa meno potente anche dalla scelta di presentare le scene di violenza in modalità off-screen) e Burt Young, nel ruolo di George (il custode del parcheggio del palazzo che tenta di salvare Jack), offre un’involontaria interpretazione da comic relief.