Roma FF18 – The End We Start From: recensione del film con Jodie Comer
Il film, presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public, è un road movie atipico, potente nella sua essenzialità, ma in parte limitante nella struttura narrativa.
The End We Start From è il lungometraggio d’esordio alla regia di Mahalia Belo, giovane cineasta inglese che ha portato alla luce un progetto originale dapprima nella commistione di generi rappresentati, ma anche nella semplicità del racconto, scritto da Alice Birch (Dead Ringers, Succession) che si lascia guidare principalmente dalle immagini e che trae ispirazione dall’omonimo romanzo del 2017 di Megan Hunter.
L’opera in questione, prodotta da Sunny March, Hera Pictures, Anton, BBC Film, BFI, C2 Motion Picture Group, è in arrivo nelle sale americane (con la distribuzione di Signature Entertainment) a partire dall’8 dicembre 2023, con un’anteprima che c’è stata al Toronto International Film Festival il 10 settembre 2023, mentre rientra nella sezione Grand Public della 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma.
The End We Start From: essenzialità e contaminazioni
The End We Start From comincia con un miracolo della vita, un evento illuminante per la protagonista (interpretata da Jodie Comer) che avviene però in un momento drammatico: Londra viene infatti semisommersa da alcune piogge torrenziali, quindi la ragazza è costretta a partire verso nord con il suo compagno (incarnato da Joel Fry) verso un mondo che è in completo disfacimento. Ed ecco che, rapidamente e senza filtri, parte il film, con un incedere rapido e andando dritto al punto, facendo arrivare prima di tutto le immagini e, solo dopo, la narrazione. Dalle prime, intense scene che mostrano la casa della protagonista allagata e in controcampo la giovane in ospedale dove ha appena dato alla luce il bambino, ci rendiamo conto che l’essenzialità è una chiave fondante del progetto.
Asciugare quasi del tutto la componente narrativa lasciando pochi sprazzi di dialoghi, solo quelli necessari e dare, tra l’altro, poche informazioni sulla storia, è sicuramente un arma a doppio taglio: da un lato è evidente che il pubblico potrebbe chiedere a gran voce una spiegazione più accurata della trama o una maggiore chiarezza nel rapporto che intercorre tra i personaggi. È pur vero, però, che tutta questa essenzialità è quasi metacinematografica: proprio una tragedia simile, in questo caso un’alluvione, recide in qualche modo tutti i legami con la realtà quotidiana, trasformando il tutto in una bolla sospesa e ciò si riflette non solo nei rapporti umani, ma anche nell’analisi della vicenda.
Nonostante tutta la sceneggiatura sia ridotta all’osso, in The End We Start From c’è una ricchezza stilistica davvero notevole, che in qualche modo controbilancia questo deficit narrativo. Dal punto di vista contenutistico, infatti, è davvero molto complesso definire il film: il genere di fondo sembra essere il road movie, con il viaggio della protagonista, del compagno e del figlio verso un avvenire migliore, il tutto, però, inserito in un contesto post apocalittico con una prospettiva tutta femminile. L’esordio di Mahalia Belo sul grande schermo non poteva essere più multiforme e creativo, con tantissime idee di forma e sostanza che danno vita ad un progetto comunque solido, nonostante le tante diramazioni registiche. Ecco che, proprio sul piano registico, il lungometraggio probabilmente offre i migliori spunti, riuscendo a costruire un universo dai tanti momenti volutamente silenziosi e criptici: qual è il vero passato della protagonista? Cosa hanno visto il compagno di lei e il padre? Come si è arrivati a tale desolazione?
Tutte domande alle quali non c’è una risposta univoca, o meglio, non c’è una vera e propria spiegazione esplicita, visto che i vuoti possono essere riempiti dalle intuizioni che ha il pubblico e dalle sue sensazioni in merito. Una libertà, quella che viene offerta agli spettatori, che è perfettamente coerente con il grande tema del film, che alla fine è riconducibile alla bellezza e alla violenza della natura, quasi un personaggio silenzioso del lungometraggio che ha finalmente modo di esprimere tutta la sua potenza senza essere imbrigliata dall’essere umano. Ed è proprio in mezzo a questo disastro, tra città sommerse, lotte per la sopravvivenza, egoismo, panico e rassegnazione; l’amore di una famiglia e il legame tra una madre e un figlio superano le avversità, rinascendo dalle ceneri delle degradazione.
Il parto come rinascita
Il simbolo perfetto di questa resurrezione lo vediamo all’interno di The End We Start From in un scena dal forte valore lirico, collocata verso la fine del film. Chiaramente lasceremo a voi la bellezza di scoprirla, ma si tratta di un vero e proprio “battesimo” per la protagonista che raggiunge un momento incredibilmente catartico che suona al tempo stesso come una consapevolezza necessaria per riprendere in mano le redini della sua vita. In generale l’intero impianto tematico della realizzazione passa attraverso la suggestione delle immagini, che riescono a guidare perfettamente lo spettatore anche in presenza, purtroppo, di un incipit narrativo non molto originale.
Di introduzioni come quella che abbiamo visto all’interno dell’opera ne è pieno il mondo cinematografico (ma anche seriale) ed è un vero peccato che ci sia stata poca cura in tal senso, anche se in realtà, più andiamo avanti nella storia, più ci rendiamo conto che questo prologo ha un valore più strumentale che contenutistico, fornendo il giusto mezzo per sviluppare ragionamenti e riflessioni al di là di quello che viene raccontato. Il problema, però, è che tutto questo involucro distrae e non poco gli spettatori che, proprio in presenza di una trama già sentita, potrebbero non volere sentire altro. Ed ecco che una maggiore originalità non solo di stile, ma anche di narrazione avrebbe giovato e non poco al film.
Tutto questo è davvero un peccato anche perché, oltre ad una gestione assolutamente intelligente dei vari temi presenti, la pellicola riesce anche molto bene a spostare l’attenzione della macchina da presa proprio sulla giovane donna di Jodie Comer, facendoci vivere il suo l’abisso e apocalisse quotidiana attraverso i suoi occhi, quelli di una madre devastata, impaurita e insicura, che però deve farsi forza per bene del suo bambino. Una prospettiva non così insolita in generale, ma sicuramente particolare per il tipo di film scelto che in questo modo ha l’occasione di celebrare il potere femminile senza dover ricadere obbligatoriamente in una retorica trita e ritrita alla quale ci siamo abituati negli ultimi anni. Ed è proprio merito della Comer se questo punto di vista risulta efficace dall’inizio alla fine.
Lontano dalle sue solite interpretazioni, qui l’attrice (che abbiamo visto recentemente in The Last Duel e The Bikeriders) incarna un ruolo più drammatico e fragile, riuscendo perfettamente a comunicare, con il solo sguardo e con una gestualità nettissima, tutti gli ostacoli, mentali e fisici, che il personaggio deve affrontare per sopravvivere. Al tempo stesso, la performance della star sorregge tutta l’opera, oscurando, tra l’altro, le altre importanti presenze autorevoli nel cast, da Mark Strong a Katherine Waterston, da Benedict Cumberbatch (anche produttore della pellicola) a Joel Fry, probabilmente anche perché i riflettori sono puntati molto più su di lei.
Valutazione e conclusione
Una regia multiforme che sfrutta la suggestione delle immagini come mezzo d’espressione; una sceneggiatura volutamente scarna con un incipit non particolarmente originale; una fotografia impattante e introspettiva; una recitazione stupefacente di Jodie Comer che però taglia fuori gli altri attori; un sonoro minimale in accordo con la scrittura; un’introspezione continua di grande valore emotivo che dimostra un ottimo bilanciamento tra la parti di The End We Start From. In conclusione un lungometraggio chiaro, diretto e senza fronzoli, forse un po’ troppo derivativo, ma con uno spiccato senso artistico e sentimentale.
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