Berlinale 2019 – Il mostro di St. Pauli (Der goldene Handschuh): recensione
Dalla Berlinale 2019 la recensione di Il mostro di St. Pauli (Der goldene Handschuh), il thriller di Fatih Akin sulla storia vera di un killer di Amburgo.
Quanto è violento e crudo e inquietante e schifoso Der goldene Handschuh (tradotto internazionalmente con The Golden Glove). Il film – che uscirà in Italia il 29 agosto con il titolo Il mostro di St. Pauli, è stato presentato in concorso al Festival del cinema di Berlino di quest’anno ed è uno splatter coi fiocchi al quale è stata aggiunta una cinematografia degna di questo nome.
Il film è diretto da Fatih Akin ed è un adattamento dell’omonimo romanzo di Heinz Strunk (scritto nel 2016); racconta la storia di un noto assassino tedesco – Fritz Honka – che incontrava le sue vittime in un pub di Amburgo, il Golden Glove. L’uomo ha ucciso almeno 4 donne tra il 1970 e il 1975.
Fatih Akin porta sullo schermo gore e violenza alla Berlinale 2019 con Il mostro di St. Pauli
La trasposizione di Akin non lesina sulla violenza, sul gore, sul sangue e sul disgusto. Seguiamo Honka senza possibilità di scelta nelle sue missioni mortali, lo guardiano nascondere i corpi e possiamo chiaramente percepire la puzza che proviene dai cadaveri conservati nel suo appartamento lurido e mal curato. Seduti sulla poltrona del cinema o sul divano di casa, quell’odore dolciastro e vomitevole lo sentirete per davvero.
A prestare il volto al cattivissimo Honka è l’attore tedesco Jonas Dassler, il cui viso è stato modificato in maniera mostruosa per adattarsi alle fattezze del killer. Dassler è completamente calato nel personaggio: si muove incespicando, respira affannosamente, strabuzza gli occhi con la follia nelle pupille. L’attore, appena 23enne, non teme di esporsi e d’imbruttirsi in una maniera che, a volte, non sembra nemmeno umana. Manipola il suo corpo, la sua voce. Vive la violenza e i disagi sessuali di Honka portando in vita frustrazione e odio in maniera spaventosamente scorretta e accurata.
L’Honka che ci viene mostrato è un uomo triste e solo. La sua vita è stata un susseguirsi di fallimenti inzuppati da litri e litri di alcool. Eppure non fingiamo di provare pena per lui. È praticamente impossibile. Come potremmo simpatizzare per un uomo del genere? Per l’assassino di Amburgo proviamo un odio viscerale che il film alimenta di continuo: Fritz Honka era un essere umano disgustoso.
Il mostro di St. Pauli: una regia ispirata per una storia sanguinosa
Da parte sua Fatih Akin riesce a realizzare un film del genere – sopra le righe e sanguinoso – senza abbandonarsi al luogo comune, senza lasciarsi cadere nel solito thriller ispirato a una storia vera. Le vicende di Honka potrebbero essere state scritte dal nulla, senza aver riferimento alcuno alla realtà. La storia del killer di Amburgo viene affrontata come una tela bianca sulla quale non manca un disegno ben tratteggiato e originale, contornato da copiosi schizzi di sangue.
Il mostro di St. Pauli è un ottimo esperimento per un Festival come quello di Berlino e mostra un certo coraggio. Il film è spietato e non mancano coloro che davanti a opere del genere si ostinano a urlare allo scandalo. Certo, quella di Honka non è una storia carina e piacevole. Non ci viene voglia di riguardarlo immediatamente, di tornare ad analizzarlo come faremmo con qualunque alto film. Anzi. Forse ci viene voglia di stare il più lontano possibile dagli altri esseri umani.
Eppure Il mostro di St. Pauli ci rimane in mente. Continuiamo a pensare alle sue morti e al modo in cui Akin ha voluto rappresentarle. Non esitiamo nel ripercorrere con la mente gli avvenimenti a cui abbiamo assistito perché in un attimo la nostra curiosità è stata destata e la storia di Honka si aggira tra le nostre sinapsi alla ricerca della prossima preda.