The Guilty (2021): recensione del thriller Netflix con Jake Gyllenhaal
Remake shot-for-shot dell'omonimo film del 2018 danese, diretto da Gustav Möller, The Guilty ci regala una performance travolgente da parte di Jake Gyllenhaal, vero padrone della scena.
Non si concede del tempo al nuovo cult movie di matrice danese di lasciar respirare le sue caratteristiche vincenti, e Netflix si mette all’opera per sfornare un rifacimento americano con Antoine Fuqua (Training Day, The Equalizer) alla regia, Nic Pizzolatto (True Detective) alla sceneggiatura e Jake Gyllenhaal protagonista. The Guilty, uscito sulla piattaforma venerdì 1 Ottobre, narra la storia di Joe Bayler (Gyllenhaal), amareggiato agente di polizia che conclude un caotico ma noioso turno rispondendo alle chiamate di emergenza, una retrocessione punitiva che ha ricevuto in vista di un’imminente udienza disciplinare. La sua noia viene presto interrotta da una chiamata criptica di una donna, Emily (Riley Keough), che sembra tentare di chiamare suo figlio, ma in realtà sta denunciando il proprio rapimento. Lavorando con i pochi indizi che la donna è in grado di fornire, Joe mette in campo tutta la sua abilità e il suo intuito per garantire la sua sicurezza, ma man mano che la gravità del crimine viene alla luce, lo stato psicologico di Joe comincia a logorarsi ed è costretto a riconciliarsi con i suoi demoni.
The Guilty: una corsa contro il tempo senza nessun appiglio nel film di Antoine Fuqua
Il colpevole è colui che non ammette le proprie colpe. Un poliziotto segnato da un caos interiore che non può essere assopito, un uomo lacerato da un crimine importante che diventa difficile da cancellare e rimuovere dalla fedina penale. Il film di Fuqua si concentra sulla distruzione psicologica di un protagonista che si affida ad una chiamata per riconnettersi col mondo che ha lasciato indietro, che ha sottovalutato in termini di azioni, reazioni e conseguenze da pagare. Il thriller Netflix va confinando un uomo già isolato in un’ambientazione che non gli concede tregua, con chiamate decisive che possono ricostruire un profilo frammentato, caratterizzato da crisi isteriche e risposte scomode e non controllate.
Jake Gyllenhaal in questo può solo spiccare, con una performance misurata nel suo essere indomato, un eroe macchiato di un reato troppo grande per riuscire a scrollarselo di dosso e pronto a salvaguardare la sicurezza di una donna rapita per riscattarsi. Si riescono ad individuare due linee narrative che viaggiano parallelamente: da un lato una vittima intrappolata che non vede più la luce e cerca disperatamente aiuto, e dall’altra parte della cornetta un individuo che cerca di tendere la mano ad un regista che assiste alla sua meticolosa disintegrazione. Un binario ben impostato nella premessa, ma “sporcato” da una mano in cabina di regia che tende alla spettacolarizzazione di queste dinamiche.
La formula ottimamente riuscita del film originale del 2018 viene ripetuta senza importanti variazioni nella scrittura
Gustav Möller, con il suo Il Colpevole – The Guilty ha saputo distruggere uno scenario avvolto dal buio per confinare un dipendente sull’orlo del precipizio. La scenografia parlava per conto del protagonista, in un gioco di vedo/non vedo serrato e tutto raffigurato tramite inquadrature molto ravvicinate. Il ritmo sta tutto in una esecuzione preparata in pre-produzione, con un attore navigato a condurre le redini del racconto e una scrittura che valorizza la sua interpretazione. Nel remake targato Netflix lo spirito incandescente di Jake Gyllenhaal gode di una libertà d’azione che stona con il progetto originale, visto che si va ampliando il perimetro della stazione di polizia e si applica una fotografia molto accesa che in qualche modo vivacizza l’operazione da condurre con la massima attenzione. Un contrasto non particolarmente riuscito, che in mano ad Antoine Fuqua diventa un giocattolo impostato ad una marcia elevata.
Proprio mentre The Guilty si sta prestando a diventare uno strumento spudorato ma perfettamente utile per gli occidentali per indulgere nella loro pigrizia, i momenti finali colpiscono, in cui un momento di ripercussione per il personaggio che è illustrato splendidamente nell’originale ed è ovviamente rielaborato per dare al protagonista del remake un momento finale più redentore. È una macchia su Hollywood che, a conti fatti, dovrebbe essere bandita nel purgatorio dei remake americani, ma dato che la maggior parte degli sforzi di Fuqua per replicare la tensione del film danese sono da ritenere sommariamente validi sotto il profilo tecnico, il suo ultimo film se la cava con un “questo semplicemente non ha bisogno di esistere“.