C’era una volta in Bhutan (The Monk and The Gun): recensione del film di Pawo Choyning Dorji da Roma FF18
Tra commedia dell’assurdo, cinema storico, dramma e riflessione spirituale, il ritorno del candidato all’Oscar per Lunana, è un film gentile, proprio come i suoi protagonisti, che poggia sulla magnificenza del visivo, senza mai strafare, strappando sorrisi ed inevitabili sbadigli. Progressive Cinema
Guardando a C’era una volta in Bhutan (The Monk and The Gun), appare chiaro quanto siano lontani i tempi di Lunana – Il villaggio alla fine del mondo, lo scalcinato, eppure poetico e memorabile esordio registico di Pawo Choyning Dorji, sull’avventurosa esperienza del giovane insegnate Ugyen (Sherab Dorji) che a causa dell’irrinunciabile sogno del canto, si ritrova a vagare solitario, tra le terre più sperdute del Bhutan, poiché punito dai leader locali.
Anche The Monk and The Gun torna nel Bhutan rurale, se possibile ancor più isolato rispetto a quello di Lunana, per raccontare un’altra avventura, che pur focalizzandosi su di un fatto storico e politico, quale l’avvento della democrazia e delle libere elezioni del 2006 – svolta che permette al Bhutan di entrare a far parte del mondo moderno in tutto e per tutto – si riallaccia ai linguaggi del road movie, anche se in misura ridotta, attraverso uno dei quattro segmenti che ne compongono la struttura narrativa. Se infatti The Monk and The Gun non è cinema antologico, poco gli manca.
Un film a mosaico
Come detto, un film a mosaico. Quattro differenti linee narrative procedono lungo le quasi due ore di durata del secondo lungometraggio di Pawo Choyning Dorji, tra queste, due risultano realmente interessanti.
La prima, vede come protagonista Tashi (Tandin Wangchuk), un giovane delinquente che si ritrova inaspettatamente al centro di una questione di sicurezza nazionale, aiutando, pur senza saperlo, un trafficante d’armi americano, Ronald Colman (Harry Einhorn), giunto lì per appropriarsi di un antico fucile della seconda guerra mondiale, ora nelle mani di un anziano contadino.
Mentre la seconda, racconta il cammino di un giovane buddista, che una volta ottenuto il medesimo fucile dall’anziano contadino, non deve far altro che tornare al tempio cui appartiene, per donarlo al Lama locale, il quale ne farà un misterico uso da lì a qualche giorno.
Queste due linee narrative, e così anche le altre che compongono il mosaico C’era una volta in Bhutan, sembrerebbero in prima battuta non aver nulla in comune. Generi differenti, toni distanti tra loro, e perfino interpreti. Eppure, ciascuno condivide la traccia tematica del fucile e sotterraneamente quella dell’avvento della democrazia, destinato inevitabilmente ad un protagonismo annunciatissimo, a partire dalla sequenza d’apertura.
Inizialmente interessante e sorprendente in termini di ambizione e complessità narrativa, considerata soprattutto l’assenza di struttura nel film d’esordio di Pawo Choyning Dorji, The Monk and The Gun, perde molto presto le redini del mosaico a quattro voci, concentrandosi unicamente su alcune di loro, sacrificandone altre, riesumate poi da un finale dal ritmo compassato e dilatato a tal punto, da apparire estremamente soporifero e gentile, come lo è d’altronde l’intero film.
Pur impegnandosi a recuperare ciascun volto e dinamica, donandole un’importanza mai davvero centrale e fondamentale per il suo sviluppo e drammaturgia, The Monk and The Gun non riesce nei suoi intenti, spingendo lo spettatore a porsi più e più volte la medesima domanda, affrontando le differenti linee narrative: lui/lei, chi è?
C’era una volta in Bhutan: valutazione e conclusione
The Monk and The Gun, pur trovando sporadici ed esilaranti momenti di comicità grottesca e surrealismo, sceglie di affossarli uno dopo l’altro, in nome di un cinema sussurrato e sonnolento, che senz’altro raggiunge un risultato da premiare, ossia cullare lo spettatore tra uno sbadiglio e l’altro, conducendolo in estrema tranquillità fino al termine dei titoli di coda, permettendogli di riposare e di abbandonarsi alla gentilezza di un regista e dunque di un’idea di cinema estremamente rara da rintracciare altrove.
Figlio di un cinema libero, fortemente legato ad una verità che è profondo realismo, se non propriamente documentarismo, il secondo lungometraggio di Pawo Choyning Dorji, ammalia lo spettatore facendo leva su di un impianto visivo – e fotografia – di indubbia magnificenza e valore, senza tuttavia considerare che un cast alle primissime armi, reclutato dallo stesso Pawo Choyning Dorji, tra le strade di quei luoghi ed una regia fin troppo impigrita, da logiche di gentilezza e convenzionalità, altro non fanno se non affossare ulteriormente la sua riuscita.
C’era una volta in Bhutan è nelle sale italiane dall’1 maggio 2024 con Officine UBU.