The Monkey: recensione dell’horror di Oz Perkins
Oz Perkins (Longlegs) adatta un racconto di Stephen King per ricordarci che tutti muoiono, e dobbiamo far fronte alla situazione. The Monkey, in sala il 20 marzo 2025, è un horror grottesco e violentissimo.
Le premesse di The Monkey, in sala il 20 marzo 2025 per Eagle Pictures, sono tutto quello che serve a un horror per attirare l’attenzione. La fonte è un racconto, pubblicato nel 1980, e scritto dal più grande di tutti: Stephen King. L’adattamento è prodotto da James Wan, il responsabile e l’ideatore di alcuni tra i più importanti franchise degli ultimi anni – Saw, Insidious e The Conjuring – e diretto da Ogood “Oz” Perkins, figlio d’arte (suo padre era il grande Anthony, il Norman Bates di Psycho) e autore del più chiacchierato horror recente. Si chiama Longlegs, negli Stati Uniti ha incassato più di 100 milioni di dollari, ha messo d’accordo la critica – non trattandosi, comunque, del capolavoro di cui si è parlato per qualche tempo – e lanciato nella stratosfera la carriera del suo regista, che adesso è un peso massimo del genere e può fare, più o meno, quello che vuole. Longlegs era un’atmosfera opprimente messa al servizio di una volontà diabolica. The Monkey, sotto tanti punti di vista, è il riflesso speculare del film del 2024: più violento, più grottesco, più divertente, meno lucido. Anche stavolta si parla di morte, di paura, di famiglia. Protagonisti: Theo James, Tatiana Maslany, Christian Convery e una scimmia assassina.
The Monkey: chi ha paura della scimmia assassina?

Un uomo (Adam Scott) entra in un negozio di anticaglie. Indossa una divisa da pilota di linea macchiata di sangue, è spaventato a morte. Ha una scimmia giocattolo che, non fosse per il ghigno poco promettente stampato in faccia, non farebbe paura a nessuno; vuole liberarsene, il titolare rifiuta. La scimmia ha un tamburo, e le bacchette in mano. Le braccia sono sollevate, in attesa di battere i colpi. The Monkey è una favola nera, e la morale è: finché la scimmia sta ferma, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Quando comincia a suonare, è finita.
Ovviamente, la scimmia suona il tamburo – siamo qui per questo – e lo suona a ripetizione, ed è chiaro che uno dei piaceri più perversi con questo tipo di storie – vale per Stephen King che scrive il racconto e per Oz Perkins che sfrutta ogni grammo di plasticità e forza evocativa dell’immagine – è lo sforzo di immaginare modi sempre più barocchi, sboccati e sopra le righe di far entrare la morte (violenta, of course). Ogni volta che la scimmia suona, qualcuno muore. Non possiamo anticipare a chi toccherà, non sappiamo come succederà, né la ragione; sappiamo solo che sarà qualcosa di cruento e molto, molto perverso. L’abito di The Monkey è una comedy-horror che camuffa la serietà dell’argomento puntando sullo shock fisico – il film è l’orgogliosa antitesi dell’horror d’atmosfera – e la franchezza di una narrazione che non si perde in chiacchiere quando si tratta di veicolare il messaggio: presto o tardi tutti muoiono, anche le persone che ci sono più vicine. Cosa farne, di questa essenziale ma deprimente informazione, è la chiave di volta della storia.
Lo capiscono bene i protagonisti, i gemelli Hal e Bill Shelburn. Da giovani sono interpretati dallo stesos giovane attore, Christian Convery, da adulti si sdoppia Theo James. Il padre dei ragazzi è sparito chissà dove, resta la mamma Lois (Tatiana Maslany) e una scimmia giocattolo nascosta tra le cianfrusaglie di papà. Hal e Bill non hanno un buon rapporto e le cose non migliorano nel momento in cui, del tutto innocentemente, mettono in moto la furia assassina della scimmia. Crescendo la situazione non migliora, perché Hal adesso è padre – di Petey (Colin O’Brien) – e le nuove reponsabilità lo costringono a scelte dolorose e a tanta cautela quando la scimmia, rimasta silente per anni, si rimette in azione. The Monkey è un horror molto trasparente nelle intenzioni. All’atmosfera di malessere generalizzato che avviluppava Longlegs sostituisce un ritmo meno uniforme, una violenza esagerata e un grottesco spinto al parossismo. Volendo, i film possono essere letti come la prima e la seconda parte di un ambizioso affresco sulla caducità della vita, l’importanza dei legami familiari e il peso specifico di atmosfera e fisicità disgustosa nella costruzione (cinematografica) della paura.
Sangue, colore e umorismo nero

Il gioco delle somiglianze e delle differenze, adesso, perché per capire The Monkey bisogna necessariamente passare per Longlegs. D’altronde, escono a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, una rapidità d’esecuzione da cinema d’altri tempi che invita alla riflessione. Entrambi i film teorizzano un Male impalpabile, invisibile e minaccioso, di provenzienza più o meno soprannaturale – al luciferino Longlegs si sostituisce il più opaco The Monkey, meno interessato a definire la questione – e in entrambi i casi il nucleo vulnerabile è una famiglia – c’è sempre un padre assente – spezzata, travolta dal caos e l’assurdità della vita. Se nel primo caso il focus era sul solco di incomunicabilità scavato tra genitori e figli, e sull’ambiguità delle scelte che i primi compiono per il “bene” dei secondi, anche a costo di rovinargli la vita, la morale di The Monkey è più lineare e più inquietante: la vita è estremamente fragile e cinica, e può portare via la gente che ami in qualunque momento. Non resta che prenderne atto, tenere duro e non lasciarsi sopraffare. Chi, nel mezzo del caos sanguinolento e farsesco del film, impara la lezione, sopravvive. Chi no, viene fatto a pezzi, e si prenda l’affermazione in senso crudamente letterale.
Oz Perkins gira The Monkey contraddicendo consapevolmente lo spirito del film del 2024, per arrivare alla stessa impietosa verità ma da un’angolazione diversa. Se Longlegs è un soggetto originale, ma derivativo nello spirito e i toni della storia – qualcuno ha detto Il silenzio degli innocenti? – The Monkey è un adattamento che prova a forzare l’originale per fare spazio alle idee del suo regista, cioè lo scandaloso legame tra morte, famiglia e incomprensibilità della vita. Longlegs era un esercizio di atmosfera opprimente, e un horror che nascondeva i suoi segreti tra le pieghe della storia per lavorare di suggestione, allusione e ambiguità, sciogliendosi solo nel finale. Non rinunciava mai a essere dramma.
The Monkey è un’esplosione di sangue – ogni morte è un po’ più esagerata, violenta e assurda della precedente – umorismo nero e colore; il rifiuto della sottigliezza. Padri soffrono per il destino dei figli, corpi saltano in aria, e una scimmia assassina ghigna soddisfatta ogni volta che la crudeltà della vita segna un altro punto a suo favore; è tutto lì, a un passo da noi, offerto al nostro godimento complice. Manca, rispetto al film del 2024, l’equilibrio che tiene insieme le molte facce del racconto. The Monkey stempera la prima efficace metà della storia con una seconda più squilibrata e caotica dal punto di vista narrativo, pigra nel lavoro sui caratteri e che non sa portare a termine le invitanti premesse iniziali, sarebbe a dire il mix di serietà, violenza e grottesco umorismo. Se le imperfezioni di The Monkey confermino o meno la superiorità dell’horror d’atmosfera rispetto all’horror fisico, è da vedere. A venir confermata, con i suoi alti e bassi, è la volontà di Oz Perkins di tirare fuori qualcosa di più, dal mestiere e dal genere: un lampo, una vocazione, autoriale. Questa è l’ambizione, The Monkey non la realizza in pieno, ma cerca di spingersi oltre la convenzione.
The Monkey: valutazione e conclusione
Oltre il cinismo e l’ironica amarezza nell’interpretazione di Tatiana Maslany e lo sdoppiamento di vezzi, nevrosi e carattere dei gemelli firmati Theo James, The Monkey rimane un film di e su Oz Perkins. Una faccenda estremamente personale, al di là dei riferimenti autobiografici che ne costellano l’architettura, come era stato anche per Longlegs (famiglie spezzate, segreti inconfessabili, fragilità dell’esistenza). L’avere al fianco James Wan che produce e, soprattutto, la guida sprituale del totem Stephen King – e, quindi, un immaginario impareggiabile da saccheggiare – certifica l’ascesa professionale e l’inedito prestigio del regista americano. The Monkey parte con ambizioni notevoli perché arriva subito dopo Longlegs e per l’importanza della fonte. Il suo orrore esagerato e l’umorismo perverso non sono accompagnati da uno script lucido nel bilanciare shock, approfondimento psicologico e spessore dei temi. The Monkey si perde, avvicinandosi al confuso e un po’ inerte finale. Resta la forza della messa in scena, e un incipit che accumula tensione intrecciando violenza e umorismo. Un film, una provocazione, riusciti a metà (la prima).