The Northman: recensione del film di Robert Eggers con Alexander Skarsgård e Anya Taylor-Joy
Primo esperimento ad alto budget per il regista Robert Eggers, che dopo The Witch e The Lighthouse torna sul grande schermo con The Northman, epopea vichinga al cinema dal 21 aprile 2022.
Al terzo lungometraggio da regista dopo The Witch (2015) e The Lighthouse (2019), Robert Eggers firma regia e — a quattro mani con il poeta islandese Sjón — sceneggiatura di The Northman, crasi onirica dell’archetipo amletico e della mitologia norrena interpretata dalla coppia Alexander Skarsgård e Anya Taylor-Joy nei rispettivi ruoli di Amleto e Olga.
Ambientata nell’Islanda del X secolo d.C, l’epopea vichinga di Eggers racconta il νόστος (“viaggio di ritorno”) di vendetta di Amleto che, dopo aver assistito in giovane età al brutale assassinio del padre per mano dello zio, consacra la più feroce insania al fine ultimo del castigo.
Con Alexander Skarsgård, Anya Taylor-Joy, Ethan Hawke, Nicole Kidman, Willem Dafoe e Björk (nel ruolo della profetessa nell’estasiante sequenza onirica), The Northman è al cinema dal 21 aprile con Universal Pictures.
The Northman: Alexander Skarsgård e Anya Taylor-Joy sono Amleto e Olga nell’epopea vichinga di Robert Eggers
Al compimento del rito di iniziazione, il giovane Amleth (Oscar Novak) assiste alla morte del padre, il re Aurvandil (Ethan Hawke), per mano dello zio Fjölnir (Claes Bang) che usurpa il trono e costringe la vedova del fratello, la regina Gudrún (Nicole Kidman), a restargli accanto come regina. Assecondando il volere del padre, Amleth fugge giurando vendetta, ossesso dall’insania più truculenta di salvare la madre e uccidere lo zio. Vent’anni dopo, divenuto berserkr (vichingo usurpatore di villaggi slavi), l’ormai adulto Amleth (Alexander Skarsgård) si imbarca come schiavo verso la tenuta dello zio, re decaduto trasferitosi in Islanda, terra vergine. Durante il viaggio Amleth si innamora di Olga (Anya Taylor-Joy), una ragazza della Foresta delle Betulle ridotta in schiavitù che lo aiuterà a portare a termine la sua missione.
Ti vendicherò padre, ti salverò madre, ti ucciderò Fjölnir: l’estasi visiva fa da cornice alla follia di Amleto
Ti vendicherò, padre
Ti salverò, madre
Ti ucciderò, Fjölnir
Se in The Lighthouse a riecheggiare visivamente erano i mostri di Goya con la loro inquieta finitezza umana, sospinti nella cornice grigia e fangosa di un ineluttabile confinamento, in The Northman l’imperativo roboante è mosso dalla vendetta promessa, viscerale, ossessiva e mortifera che Amleth, l’Uomo, assurge come unico esito possibile.
Dal racconto di Saxo Grammaticus, ripreso e cesellato da Shakespeare, Eggers attinge con il desiderio di riscrivere l’archetipo tragico sublimandolo nell’estetica cruda e sanguinolenta dell’epoca vichinga.
L’ossessione del protagonista, dei suoi pari e dei suoi nemici, emerge in controluce nel silenzio roboante di grida viscerali, intrise d’odio, amore, repulsione e perversione, in primi piani ricercati come epilogo di sequenze disturbanti: l’estasi che ne consegue è dovuta, più che al vezzo estetico, alla devozione formale che il regista esalta sulle intuizioni di Jarin Blaschke, già direttore della fotografia per The Lighthouse, abile artigiano degli incastri. Ai tableaux vivants fulgidi, virati sulle tonalità del rosso fuoco – allusivi alla carne, al sangue e alla passione -, fanno da contraltare le sequenze oniriche desaturate, che nella scala cromatica dei grigio-verdi risaltano, estremizzate nella loro potenza dichiarativa.
L’opera di Eggers, forse la più fruibile della triade in virtù del prototipo tragico e mitologico, incede lenta e vertiginosa, nobilitata da un primordiale istinto al sangue che in Amleth, ferino e selvaggio, trova la sua ratio. La figura vigorosa di Alexander Skarsgård è prestante nel ruolo del Vendicatore, intraducibile in termini umani, anello di congiunzione di uomo e bestia, scortato nella declinazione teatrale da un cast di comprimari che agiscono in addizione simulando intrighi coreografici nell’oscurità tetra e materica dell’Islanda dell’anno Mille. È l’amore per Olga, per la futura progenie, per la familiarità di un sentimento vissuto visceralmente a costituire l’unica occasione di redenzione dal vizio del sangue, un’opportunità che Amleth sacrifica in virtù di un disegno primigenio, atteso, edificato fino all’atto finale.
Si avverte tuttavia l’esigenza di perimetrare una vertigine nell’opera di Eggers, quella di una verbosità difettosa che nella veste di una non necessaria dichiarazione di intenti rischia di appiattire il magma evocativo dell’epopea.