The OA: recensione della serie Netflix
Dopo aver visto la prima puntata, avevamo dato a The OA il beneficio del dubbio. Il pilot aveva scatenato in noi molte, troppe domande e, per evitare di mettere le mani avanti, avevamo deciso di affidarci alla confusione e di lasciarci trasportare. Con il proseguire degli episodi ci siamo sentiti sempre più sull’orlo del baratro, abbindolati ad ascoltare la protagonista e la sua storia folle, assurda. Ne è valsa la pena? Forse no.
Questo articolo è dedicato a chi ha visto The OA fino alla fine. Incontrerete parecchi spoiler necessari per parlare a fondo della serie: ritenetevi avvisati.
The OA ci ha messo di fronte una serie di difficoltà davvero insormontabili. Prima di tutto è diventato cristallino il motivo per cui Netflix non ha pubblicato una trama di qualche tipo prima di rendere disponibile lo show: è inverosimilmente arduo, complicato raccontare di cosa parla The OA; il rischio è quello di perdersi nella narrazione della protagonista, nelle sue divagazioni. Partiamo dal presupposto fondamentale: il ritorno a casa di Praire Johnson (Brit Marling), una ragazza cieca che era scomparsa da sette anni. Viene ritrovata in uno stato confusionale, con la schiena ricoperta da strane cicatrici e, soprattutto, vedente.
La ragazza sembra essere dotata di strani poteri (calma un cane inferocito, percepisce la perdita della professoressa Allen e così via) e stringe amicizia con un gruppo di ragazzi del quartiere. Inizia a raccontare loro la sua storia, per filo e per segno. Praire non è Praire, è Nina, ma è anche OA (in italiano tradotto in PA). Ascoltiamo la sua storia nella storia con la stessa attenzione dei ragazzi, presi da dubbi sulla veridicità di ciò che ascoltiamo. The OA dal vago genere sci-fi di partenza, sfocia nella metafisica tra dimensioni parallele e angeli. Sì, angeli. OA sta per Original Angel (in italiano Primo Angelo). Veniamo travolti da queste nuove informazioni e continuiamo scettici nella visione di una serie che sembra davvero ci stia rubando del tempo.
The OA: l’epilogo
Proprio quando pensavamo di aver raggiunto l’apice, assistiamo a quelle che sembrano a tutti gli effetti strane lezioni di yoga: sono movimenti che gli angeli scoprono nell’aldilà e che permettono di accedere a diverse dimensioni, guarire le malattie e riportare in vita i morti. Risparmiando i dettagli vaghi e buonisti che pullulano nella visione di The OA, arriviamo all’epilogo. Non poca sorpresa scopriamo – con nemmeno troppa certezza – che forse Praire-Nina-OA si è inventata tutto. I libri nella sua stanza sono una prova inconfutabile, ma la confusione regna sovrana.
Qual è il fine ultimo della protagonista? Cosa c’è di vero nella sua storia? I dettagli sono probabilmente inventati, ma il dubbio viene insinuato nello spettatore che, a questo punto, non può fare altro che correre a cercare suggerimenti interpretativi su internet. Praire crede davvero in ciò che racconta, lo fa fino alla fine, fino a quel proiettile nel cuore che salva – grazie ai movimenti, il cui unico potere è distrarre e confondere l’attentatore – dei ragazzi innocenti da una terribile strage. Nelle parole della protagonista credono anche i 5 ascoltatori che rischiano la loro vita pur di provarne la veridicità.
The OA: come dobbiamo interpretare il finale?
L’interpretazione del finale di The OA è soggettiva, dipende interamente dallo spettatore: credete o no alla storia di OA?
Se le credete, significa che le premonizione che ha avuto fin dal suo ritorno a casa riguardavano la sparatoria a scuola e che stava inavvertitamente preparando i 5 ad affrontare il loro “grande male”. Sappiamo che i movimenti hanno poteri curativi, quindi i loro sforzi – per un momento – potrebbero aver alleviato il dolore che ha portato l’attentatore a voler commettere quell’atto orribile. Allo stesso modo, non può essere una coincidenza che le due volte che abbiamo visto i 5 movimenti completi, sono stati poi seguiti da uno sparo: prima Evelyn, la moglie dello sceriffo, poi OA, successivamente al quinto movimento sono state colpite da una pallottola, per poi portare le mani sul petto allo stesso modo (anche se Evelyn lo fa abbracciando il marito). La morte di OA era necessaria per completare il movimento e per portarla nell’altra dimensione, dove ritrova Homer.
E se, invece, OA fosse davvero affetta da una malattia mentale? Forse, in quella scena finale, non si risveglia in una nuova dimensione, ma in un’ospedale psichiatrico, lucida per la prima volta dopo molto tempo. Lì incontra di nuovo Homer, scoprendo – confusa – di trovare un altro paziente, che lei aveva incluso nella sua storia. Questa teoria è supportata dai libri che French trova nella sua stanza.
Ma c’è una terza spiegazione. Qualcuno, infatti, sostiene che Elias – l’agente dell’FBI interpretato da Riz Ahmed – abbia posizionato quei libri nella stanza di OA.
Altrimenti perché sarebbe nella casa a quell’ora di notte, preoccupato di chiedere a French se fosse da solo? Forse l’FBI non vuole che venga data credibilità alla storia di OA: i libri sembrano intonsi, forse non sono mai stati aperti; OA parlava di Homer – il ragazzo prodigio del football – prima di aver accesso ad internet e quando riesce a cercare il suo nome, cerca direttamente “Homer Roberts”, trovando un video su Youtube. Questo dimostrerebbe l’esistenza di Homer al di fuori della sua immaginazione. Allo stesso modo, non avendo accesso ad internet, non avrebbe potuto ordinare quei libri online: è Steve a fornirle una connessione e lei inizia a raccontare la sua storia il giorno stesso.
Ci sono elementi nella sua storia che devono essere veri: la sua infanzia in Russia (Abel la senta parlare in russo nel sonno), le cicatrici e il suo imprigionamento (Elias le dice che i suoi esami clinici lo dimostrano). Qual è la verità?
Qualunque sia la vostra interpretazione di The OA, poco importa.
Se The OA vi è piaciuta nonostante tutto, non vi serve davvero una spiegazione: quel finale, per voi, è perfetto così com’è; riuscite ad accettarne l’incertezza e la confusione. Se non avete apprezzato la strana serie Netflix, non c’è problema: siete arrivati alla fine, curiosi di scoprire al verità. Verità che non è mai arrivata, certo, ma siete rimasti imbambolati, seduti a gambe incrociate come quei 5 ascoltatori attenti, pronti a sentire la risposta a quella domanda finale: “Homer?”.
I buchi nella sceneggiatura, quella fotografia da sci-fi di bassa qualità, gli effetti al limite del ridicolo, la regia confusa e quella recitazione poco convincente, lo sapete, non vi fermeranno: se Netflix produrrà una seconda stagione di The OA, voi sarete ancora lì a gambe incrociate, mangiati vivi dal bisogno di risoluzione che, forse, non arriverà mai.