The Order: recensione del film da Venezia 81

Il film di Justin Kurzel, con Jude Law, Tye Sheridan e Nicholas Hoult, presentato in concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia.

Il suprematismo bianco degli anni ’80 che riflette sugli sconvolgimenti di un passato recente, la manipolazione della piccola comunità, la violenta e ricercata pulizia etnica dei gruppi organizzati; The Order è il film diretto da Justin Kurzel, presentato in concorso all’81ª edizione del Festival di Venezia, che per la prima volta ospita il regista australiano autore di Snowtown, Nitram e Macbeth (2015). L’opera, basata sul libro di saggistica del 1989 The Silent Brotherhood di Kevin Flynn e Gary Gerhardt, racconta di un agente dell’FBI chiamato a sgominare un’organizzazione criminale operante nella zona nord-occidentale degli Stati Uniti, a metà degli anni ’80. Scritta da Zach Baylin e interpretata da Jude Law, Nicholas Hoult e Tye Sheridan, l’opera vede la produzione di AGC Studios, Chasing Epic Pictures e Riff Raff Entertainment (dello stesso Law).

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The Order: come si arresta la violenza?

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Terry Husk (Jude Law) è l’agente FBI specializzato in organizzazioni criminali che, arrivato nella piccola realtà di Metaline, a Washington, è chiamato ad interrompere la brutale serie di crimini che da qualche tempo sconvolge tutta la comunità circostante, tramite rapine in banca e piccoli attentati all’interno di sale cinema per adulti. Con l’aiuto del collega Jamie Bowen (Tye Sheridan), unico poliziotto del posto a mostrarsi retto e fedele al proprio ruolo, l’agente Husk comprende presto quanto l’organizzazione sia ben più radicata di una semplice banda armata e di quanto i reati compiuti sino a quel momento siano solamente il campanello d’allarme per qualcosa di ancor più sconvolgente, di ancor più dannoso e potenzialmente distruttivo.

Il The Order che da titolo al film è l’appellativo datosi dal gruppo organizzato di neonazisti, fondato e capeggiato dal ferale Bob Mathews (Nicholas Hoult), sorto con fine rivoluzionario e impegnatosi in rapine al fine di poter formare un esercito da schierare in opposizione al governo, per quella pulizia etnica da molti ancora ricercata, a 40 anni di distanza dal secondo conflitto mondiale e a 40 anni da un oggi non così tanto differente. I passi mossi dalla violenta congrega seguono i dettami del libro The Turner Diaries, di William Luther Pierce – estremista fondatore della National Alliance – che li spinge sino a quel fatto di cronaca realmente accaduto il 18 giugno del 1984, quando il conduttore radiofonico ebreo Alan Berg venne ucciso a Denver, attirando l’attenzione mediatica e, al contempo, una maggior inquietudine della polizia.

L’ordine dei suprematisti, il disordine raziale

The Order Jude Law cinematographe.it

I suprematisti seguono ordinatamente i 6 passi proposti dal libro di Pierce, sotto l’egida di un capo violento e risoluto, dell’ammaliatore che trova nella massa la miglior preda: la piccola comunità è manipolata da uno stato forza, di dominio, e ne diviene parte sia nella convinzione che nell’impassibilità e nella paura dei suoi membri. Una comunità che diviene famiglia, in netto contrasto con quella che famiglia lo è, non nel sangue versato degli altri ma in quello proprio, quello della famiglia Bowen, ormai ultimo baluardo di integrità, di apertura, di giustizia. I propositi dell’organizzazione criminale sono quelli di una setta, di una religione non retta da comandamenti, bensì da un percorso perfettamente descritto, delineato. A fronteggiarli Terry Husk, un uomo solo (fatta eccezione per il collega sopra citato), lontano da casa, a cui non sembra essere rimasto altro che la possibilità di ripulire il marcio che sporca un paese nascostamente in guerra, un uomo che, nella caotica successione degli eventi, si avvicina sempre più ad uno scontro frontale con il leader dei fanatici, in un gioco di potere che vive nel fuoco delle armi e nella paura di un rovesciamento degli equilibri, in una perdita dei diritti e dell’uguaglianza.

The Order: valutazione e conclusione

The Order Nicholas Hoult cinematographe.it

Justin Kurzel ancora una volta si ispira al reale e, come già aveva fatto con i precedenti Nitram e Snowtown, racconta di eventi che hanno oscurato il mondo, mostrando la disumana violenza in tutta la sua umanità, in tutto il suo essere vera, in tutto il suo essere storia. Confrontando l’opera con le precedenti, però, sebbene si ritrovino alcuni elementi caratteristici del cinema del regista australiano – su tutti il rapporto tra il dramma e il luogo che ne è stato teatro, tra la violenza dei personaggi e lo spazio posto ad assorbirne i danni – si denota la perdita dell’efficacia di quello sguardo giustamente sporco, giustamente sbagliato e degradante che aveva contraddistinto le passate pellicole, forse a causa dell’evidente taglio americano di The Order, forse a causa di una sceneggiatura (curata da Zach Baylin) che conquista per gli eventi narrati ma non sorprende in originalità, mostra il già visto e non rende giustizia alla drammaticità di alcuni momenti.

A far da contrappeso a queste mancanze, da una parte ci sono tre straordinari interpreti – scelte azzeccatissime per un racconto che vive di quei tre volti, tanto diversi quanto calzanti per i ruoli assegnatigli – dall’altra la preoccupante risonanza del racconto nel recente passato, ritrovata nelle alterazioni sociopolitiche che il 6 gennaio del 2021 hanno raggiunto il loro apice nell’assalto a Capitol Hill, e che oggi attendono l’esito delle prossime elezioni. Una storia da conoscere, da leggere ed analizzare in modo da comprendere quanto quell’aberrante realtà del passato si sia evoluta nel presente, una storia su cui riflettere ma che a livello prettamente cinematografico, visto l’estro e il trascorso operato del suo regista, doveva colpire con maggior ferocia e spietatezza.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Sonoro - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Emozione - 2.5

3.1