Venezia 76 – The Painted Bird: recensione
Recensione di The Painted Bird di Václav Marhoul presentato a Venezia 76, un film crudo e violentissimo che parla di crudeltà e razzismo.
L’Europa dell’est durante il secondo conflitto mondiale, in special modo i territori di Ucraina, Repubblica Cecoslovacca, Unione Sovietica, Bulgaria e Polonia, era un vero e proprio inferno in terra, dove morte, orrore e disperazione dominavano su ogni cosa del creato. E in quella terribile centrifuga di nefandezze, lo scrittore Jerzy Kosinski (che da bambino ebbe l’esistenza stravolta dall’Olocausto) ambientò il suo The Painted Bird, che a suo tempo riscosse enorme eco nel mondo, divenuto un film grazie al regista ceco Václav Marhoul, in concorso a Venezia, e al momento il film più forte, crudo, disturbante e spiazzante visto alla rassegna quest’anno.
Protagonista, come nel romanzo di Kosinski, è il Ragazzo (Petr Kotlár), piccolo bambino ebreo che i genitori, impossibilitati a tenere con loro per le persecuzioni naziste, hanno affidato a un’anziana e benevola contadina. Purtroppo però alla morte di quest’ultima, il Ragazzo si troverà completamente da solo, costretto a scappare e muoversi senza meta, a sopravvivere e subire di tutto a causa del suo essere ebreo, del suo essere indifeso, bambino in un mondo di adulti popolato da esseri orribili, barbari, ripugnanti, ignoranti. E loro, tutti loro, buoni o malvagi o semplicemente persi, rivivono grazie alle interpretazioni di un cast assolutamente stellare, che comprende interpreti del calibro di Stellan Skarsgård, Harvey Keitel, Julian Sands, Barry Pepper e Aleksey Kravchenko.
The Painted Bird: un’Odissea oscena e ributtante che racconta il terrore del razzismo
Girato tutto in 35 mm, con un elegantissimo e incredibilmente espressivo bianco e nero esaltato dalla fotografia di Vladimir Smutny, The Painted Bird guida lo spettatore in un’Odissea oscena, ributtante, terrificante per la sua quasi totalità. Il piccolo protagonista vivrà sulla sua pelle le peggiori derive del razzismo, quel razzismo e soprattutto antisemitismo che Hitler non inventò o portò in quelle terre, ma che era secolare “patrimonio” di un’Europa orientale raccontata per quello che era (e purtroppo è in parte ancora oggi): il tempio di ignoranza, arretratezza, il paradiso del razzismo e di un’intolleranza che affondava le radici nella religiosità più oscurantista, nelle faide tribali pseudo-medioevali, in una visione della vita a dir poco terrificante.
Per The Painted Bird, per Marhuol, la religione è il male, la politica è il male, l’uomo è lupus homini, è moltitudine vociante e barbara, è ipocrisia e fanatismo, è prendersela coi più deboli, sfogare su di loro il fango di una vita grama, abitata da fantasmi di credenze e superstizioni antiche e grottesche. Non più grottesche delle strane creature che il protagonista, a cui il bravissimo Petr Kotlàr dona una vitalità e umanità bellissime, si troverà davanti, che lo cambieranno (sia in meglio che in peggio) per sempre.
Preti premurosi, contadini violenti, soldati spietati o generosi, SS sanguinarie, ladri, pedofili, pazzi, ebrei in fuga, ninfomani, eremiti… c’è di tutto in questo viaggio nel tempo e nello spazio, molto meno “storicizzato” e definito di quanto si pensi, quanto piuttosto reso chiaramente monito e accusa universale, senza tempo, all’uomo e al suo ripetere all’infinito gli stessi orrori ed errori.
The Painted Bird: i miti non erediteranno la Terra
Sicuramente un film in parte difficile, sicuramente un film duro, crudo, che non risparmia nulla allo spettatore, lo costringe a fronteggiare veri e propri attacchi al comune concetto di empatia, di umanità.
Eccessivo? Difficile sposare questa parola al cinema, ma di certo non si può accusare The Painted Bird di incoerenza, di non avere il coraggio di fare ciò che molti altri film non hanno fatto per prudenza, opportunismo o senso del pudore. Un pudore che non può sopravvivere di fronte alla Storia, quella vera, quella scritta col sangue, lontana dalla rassicurante narrazione che ben pochi registi hanno evitato. Persino l’orrore a ben pensarci, è diventato di comodo, è diventato standardizzato, il suo svelarlo agli occhi dello spettatore, l’autopsia sul lato oscuro dell’animo umano, negli anni ha perso di capacità espressiva, di verità.
Questo film sposta totalmente il limite di ciò che è stato fatto fino ad oggi, sfiorando (ma mai toccando) l’essere film di genere, la sperimentazione slegata dalla fruizione cinematografica standard, ma rivendica invece in modo netto e adamantino la sua essenza politica, filosofica e la menzogna con cui ci consoliamo da sempre: i miti erediteranno la terra.
No, non succederà. Non è mai successo. I miti vengono schiacciati, sopraffatti, l’uccello diverso dallo stormo verrà ucciso in quanto diverso, in quanto tale, il debole verrà mangiato dal più forte, l’agnello massacrato dai lupi e l’unica terra che essi vedranno è quella della loro fossa.
The Painted Bird: il diritto alla vendetta
E il piccolo protagonista, in una landa insanguinata da cosacchi, tedeschi, partigiani ladri, soldati sovietici, alla fine diventerà giocoforza spietato, vindice di sé stesso e dei suoi simili e pari, gelido difensore della sua sopravvivenza anche a costo di perdere parte della propria. In questo, in tutto questo, The Painted Bird rivendica più che il diritto alla difesa, quello alla vendetta, alla punizione, alla malvagità contro la malvagità, a quella parte di umanità che per difendersi sovente si rinnega.
“Ricorda” dice un ispiratissimo Barry Pepper “occhio per occhio, dente per dente”, o meglio, come disse Andreotti: “Va bene porgere l’altra guancia, ma nostro Signore nella sua saggezza ce ne dette due sole”.
The Painted Bird non è un film per tutti; si è una terminologia abusata, ma talvolta calzante e in questo caso nasconde un complimento, un essere in perfetta controtendenza ai tanti film “d’autore” preparati a tavolino per un pubblico generalista che si crede elitario, poco coraggioso e incapace di andare oltre la superficie di ciò che ha di fronte. Un pubblico che ormai ha deturpato per il troppo utilizzo la parola “capolavoro” per film da una stagione, senza riconoscerne uno vero (per quanto grezzo) quando lo ha di fronte.
E questo è uno di quei casi.