TFF37 – Il Buco (El Hoyo): recensione del film horror
Un'utopia da cui dovrebbe nascere solidarietà spontanea ed esce solo l'anima atavica degli umani: l'horror Il Buco e la sua visione quanto mai reale.
Solidarietà spontanea. Un concetto bellissimo, ideale quanto utopico, appartenente ad un sogno che, in quanto tale, rimarrà sospeso e non verrà mai attualizzato. Forse. Probabilmente. Un sistema che potrebbe condurre l’intero pianeta alla pace, che renderebbe solide le dinamiche di un contratto sociale che vede ancora piani superiori e piani inferiori, ceti adagiati nel lusso e nel benessere, mentre si lasciano morire persone, esseri umani nelle fosse. E proprio il Buco è il luogo in cui si viene imprigionati. Per scelta o per un crimine commesso. Il Buco, come depurazione dei mali e fonte di insegnamento che, però, non può venire applicata, se non tramite quella solidarietà spontanea che ricondurrebbe a fantasie immaginarie.
Eppure qualcuno a questa chimera ha pensato. È riuscito a partorirla, strutturarla, metterla in atti e realizzarci un film che coglie perfettamente il punto. E non può essere che uno scenario horror quello che David Desola e Pedro Rivero sono finiti per formulare con Il Buco, nella comprensione dell’incapacità di poter creare un sistema concorde che sappia auto-gestirsi, auto-regolarsi, auto-comporsi garantendo appagamento, ma soprattutto l’incolumità di tutti. Un luogo dove non lasciare nessuno indietro. Ma, ancor di più, dove nessuno si butti nel vuoto.
Il Buco: da solidarietà spontanea a istinto omicida
Perché sono, infatti, tre tipi di persone che popolano il Buco. Quelli di sopra, quelli di sotto e quelli che cadono. Inserito per proprio desiderio in questa sorta di prigione verticale, Goreng (Ivan Massagué) ha portato con sé la voglia di smettere di fumare e un libro tra i più classici della letteratura mondiale, Don Chisciotte della Mancia. Perché un oggetto si può tenere, ma non sono certo gli individui che scelgono di avere con sé un romanzo le più adeguate per la Fossa. Un numero indefinito di livelli e, ad ognuno, soltanto due persone a lotto. Un’unica, quadrata piattaforma, quella che contiene il cibo per tutti e che partirà dall’alto per arrivare fino al piano più infimo.
Un sistema di distribuzione del cibo che non tiene conto di regole comportamentali o alcun altruismo verso coloro che si trovano più in basso rispetto al proprio livello. Perché ogni mese il numero cambia e potresti ritrovarti a non nutrirti per molto tempo e in cui la regola finale diventa soltanto quella del magiare o essere mangiati. Letteralmente. Nell’attivazione del centro verticale di autogestione di Il Buco, è la metafora più antica dell’esistenza quella che si riaccende atavica e omicida nell’essere umano. Uccidere per non venire ucciso, seviziare per non essere seviziato. Ed è scavando oltre che il regista Galder Gaztelu-Urrutia va mostrando lo schifo di cui le persone, animali allo stato brado, sono in grado.
Quando il ribrezzo e la paura prendono forma
La psicologia sociale entra a far parte di questo gioco sadico, che cerca nella propria costrizione architettonica e nella libertà illimitata la speranza di una coscienza che dovrebbe derivare dall’esterno, da una civiltà che ha saputo evolversi, ma che non perde l’occasione per poter tornare velocemente al proprio Io più selvaggio. Un circolo vizioso, dove non è l’essere assassini a predominare, dove non sono i coltelli, le pistole puntate o oggetti affilati a spingere le persone alle gesta più disgustose e atroci. È la paura a regnare ogni livello della piattaforma, che trascina con precarietà sanguigna il terrore e il modo per affrontarlo.
Su di una sceneggiatura che non perde mai un colpo, in cui ogni strato a qualsiasi altezza sfrutta a pieno le efferatezze in cui si va a scadere miserevolmente, Il Buco continua una riflessione che il cinema reitera nella sua costante fobia per un domani senza prosperità, senza sostegni, senza alimenti. Una società del domani resa chiusa e insieme profetica per un film dove la finzione arriva dritta in maniera quanto mai reale, che lascia con sé lo sconforto, il disagio, il rigetto per ciò che vorremmo tanto lontano da noi, ma a cui potremmo scoprire di essere obbligati. Tutto ciò che resta di spontaneo in The Platform è il ribrezzo, la vergogna e quel dolore che ti lacera quando un film riesce veramente a parlare. E l’horror di Galder Gaztelu-Urrutia non usa solo parole per farlo, ma urla e strilli di chi da quella prigione vorrebbe staccarsi. Buttandosi per poi morire.