Biografilm 2022 – The Princess: recensione del documentario su Lady Diana
Perkins consapevolmente decide di mettere a fuoco solamente la storia umana della principessa attraverso il suo rapporto con i media
The Princess, il documentario di Ed Perkins, arriva in anteprima nazionale al Biografilm Festival 2022, festival bolognese del cinema documentario che si fregia di essere “una celebrazione internazionale delle vite”. Ad aprire la kermesse è, appunto, la produzione britannica targata HBO, Lightbox, Sky Documentaries.
Il film è realizzato interamente con materiale d’archivio. Racconta la storia della principessa Diana, coprendo un arco temporale che va dal 1981 al 1997, cioè dal momento del fidanzamento di una diciannovenne Diana Spencer con il trentaduenne erede al trono d’Inghilterra, Charles Mountbatten-Windsor, all’anno della tragica morte in un incidente stradale a Parigi. Tuttavia quel che salta subito all’occhio è l’utilizzo minimale di materiale che documenti la realtà sociale o politica del periodo storico in cui si mosse Diana. Ci sono accenni alle rivolte durante gli anni della Thatcher, una comparsata di Reagan ad un ballo alla Casa Bianca, Hillary Clinton e poco più. Perkins consapevolmente decide di mettere a fuoco solamente la storia umana della principessa attraverso il suo rapporto con media, paparazzi, tabloid e tv. Non vi sono interviste girate ex novo, né analisi psicologiche di sorta. Sono le immagini e le voci di protagonisti e commentatori del tempo a parlare.
The Princess non è solo una celebrazione di Lady Diana
Il montaggio è veloce, a tratti sincopato, come in un film d’azione, la colonna sonora invadente e complessa come in un dramma hollywoodiano. La forma è quella di un documentario di repertorio, ma la struttura della narrazione e la sintassi con cui i frammenti televisivi vengono assemblati, sono quelli di un racconto morale, una sorta di fiaba moderna.
Il regista cerca in tutti i modi di evitare l’etichetta di documentario di celebrazione, cioè, secondo la definizione di Sorlin, un testo scritto da eminenti storici, in cui il materiale d’archivio ha lo scopo di illustrare un mero discorso cronologico. Invece trasforma tale materiale, seguendo le tendenze più moderne, in oggetto di rielaborazione artistica. Una rielaborazione stratificata su due livelli.
Il primo è quello narrativo, il racconto della fiaba della principessa. Diana, di antica famiglia nobiliare, viene appositamente presentata come una maestrina, ancora illibata, che si innamora di un uomo più grande e molto diverso da lei. La donna vorrebbe un amore da favola, vorrebbe esser una moglie e una madre, Carlo invece vuol continuare a fare lo scapolo ed è innamorato di un’altra. Arrivano i figli, la depressione, ma anche la consapevolezza della propria forza mediatica. Agli inglesi Lady D piace e così lei si trasforma in un’icona della beneficenza. I due si separano, divorziano, la famiglia reale tribola. Diana ormai consapevole di sé, continua le sue battaglie umanitarie e si innamora di un miliardario egiziano. I due muoiono in un incidente d’auto a Parigi, forse mentre cercavano di sfuggire a un paparazzo.
Come si nota da questo breve resoconto, Perkins inserisce il suo testo in una narrazione paradigmatica di due miti contemporanei: l’innocenza corrotta dal potere e la rivincita femminista attraverso l’autoconsapevolezza di sé e la capacità di sfruttare le strutture oppressive del patriarcato (i media e il legame del popolo con la famiglia reale) per rimodulare la propria persona pubblica in icona. Questo tipo di semplificazione di una vita complessa come quella di Diana, legata a dinamiche di potere ben precise, risulta nel migliore dei casi ingenua. Le immagini scelte per rappresentare l’ascesa di Diana la ritraggono con capi di stato sorridenti o mentre fa la buona samaritana in situazioni di disagio sociale ed economico. Annullano ogni nesso di causa ed effetto per cui sarebbe il potere stesso, rappresentato dalla principessa occidentale e dai politici cui fa visita, a generare quelle situazioni di povertà e marginalità. Anzi spesso sottolineano come la donna fosse riuscita ad autorappresentarsi come una nemica proprio di quel potere, per meri motivi personali (i problemi creati all’immagine della royal family).
The Princess: una storia umana
È invece il secondo strato della rielaborazione della storia di Lady D, la riflessione sul legame fra potere personale di Diana e media, a rendere il documentario interessante. Attraverso una sequela di scene contraddittorie, accompagnate dai commenti d’epoca, Perkins mostra la donna smettere gradualmente i panni della vittima innocente, per rivelarsi scaltra nell’uso della propria immagine pubblica. Per molti versi Lady D fu in grado di anticipare le dinamiche oggi in voga sui social media, in cui gli influencer sfruttano a proprio vantaggio la propria vita privata, per restituire una narrazione commerciale di sé stessi.
Perkins sottolinea più volte come Diana fosse capace di giocare con paparazzi e televisioni, evitando di farsi riprendere in certi momenti e regalando, in altri, studiate pose, che, di volta in volta, ne valorizzavano l’immagine di moglie tradita, di madre, di campione dei diritti umani o semplicemente di donna innamorata. Così facendo l’autore getta un’ombra inquietante sull’icona quasi religiosa restituita in altri momenti del film, ricordandoci quanto nei tempi della svolta postmoderna in cui viviamo, le coordinate per interpretare la nostra storia, anche quando ben documentata da un’infinità di riprese video, risultino sempre sfuggevoli. Mentre la pervasività dell’immagine e dell’esposizione mediatica non fanno altro che moltiplicare all’infinito le rappresentazioni sociali riferite a una singola persona, annullandone l’unità identitaria, finché di quella persona non rimane appunto che un’icona, vuota.