The Rule of Jenny Pen: recensione del film di James Ashcroft, dal 42TFF
Un’esperienza cinematografica frastornante, claustrofobica, dolorosa e profondamente inquietante, nata dall’incontro immaginario tra un potenziale Cocoon in chiave horror e Misery non deve morire. Sull’anzianità, l’isolamento e l’ordinarietà del male. Con un grande John Lithgow. In anteprima al 42° Torino Film Festival.
Non sono pochi i film interamente ambientati in un ospizio. Se però di molti non ricordiamo nemmeno il titolo, di altri e accade sempre più raramente, ci accorgiamo fin da subito, di non poterne proprio fare a meno. È il caso di Cocoon – L’energia dell’universo di Ron Howard, Bubba Ho-Tep – Il re è qui di Don Coscarelli e Non è mai troppo tardi di Rob Reiner. Si aggiunge a questi, The Rule of Jenny Pen, il secondo lungometraggio da regista del neozelandese James Ashcroft, precedentemente autore del notevole e feroce Viaggio nell’incubo. Senza dubbio alcuno, ci ritroviamo di fronte ad un nuovo grande nome dello scenario cinematografico internazionale, poiché lo diciamo fin da ora, The Rule of Jenny Pen, adattamento dell’omonimo racconto breve di Owen Marshall, è un film come pochi altri, anzi, come nessuno.
Il male è ordinario, spaventoso e claustrofobico e… può celarsi nell’anzianità
Al termine di una lunga vita, costellata da grandi riconoscimenti e successi professionali, una malattia improvvisa irrompe nell’esistenza del giudice Stefan Mortensen (Geoffrey Rush in una disperata e memorabile prova della senilità), costringendolo alla reclusione in ospizio, senza più possibilità di ritorno. Proprio lì, dove ogni individuo ormai vulnerabile e privo di forze, dovrebbe potersi sentire al sicuro, Dave Crealy (John Lithgow è feroce, crudele e sregolato come non mai), l’uomo che tutti sembrano ignorare, non desidera altro che perseguitare e causare maggior dolore ad ogni paziente dell’ospizio, senza alcuna ragione effettiva.
Nessuno ha osato raccontare la verità, denunciando la violenza cieca e indisturbata di quel male che non possiede un solo volto, bensì due – c’è di mezzo una marionetta -, trasformando rapidamente l’ospizio, in un vero e proprio inferno. Perché nessuno parla? Chi o cosa ha generato quel male? Una cosa è certa, il tempo della cura non è mai cominciato, al suo posto quello dell’incubo e della paura. A tre anni di distanza da Viaggio nell’incubo, esordio cupo e brutale sulle colpe del passato e la capacità del dolore di sopravvivere alla memoria e alla volontà di dimenticare, alimentando maggior odio e violenza, James Ashcroft è tornato con un film ancora più disperato, malefico e spietato, The Rule of Jenny Pen.
Facendo della dimensione claustrofobica e della violenza continuativa e indisturbata degli – e sugli – uomini la propria cifra stilistica; il film precedente aveva come unica location o quasi quella degli interni auto; Ashcroft questa volta non si misura più con la traccia della vendetta e le conseguenze dell’abuso, piuttosto di tutto ciò che talvolta e silenziosamente può generare il male, perfino dinanzi ai nostri occhi. Il male più ordinario, banale e per questo spaventoso. Poiché inavvertito e opportunamente celato da una condizione di perfetta appartenenza alla società. In questo caso all’ordine apparentemente armonioso dell’ospizio. Lì dove la violenza serpeggia incessante, seppur taciuta e ignorata. Lì dove la rabbia cresce, rispetto alla quale il male nulla e al tempo stesso tutto può. Ecco dunque lo scontro, dal verdetto nient’affatto scontato.
The Rule of Jenny Pen: valutazione e conclusione
Cosa sopravvive al male e cosa alla rabbia? Maggior dolore? Serenità? Oppure una macchia indelebile nella memoria dell’uomo? James Ashcroft si pone questi e molti altri interrogativi e così anche noi. Le risposte non tardano ad arrivare, ma per scoprirle, è necessario sprofondare in un vortice senza fine di oscurità, crudeltà e agonia, derivate tanto dalla follia e dalla violenza di Dave Crealy, quanto dagli spazi bui, claustrofobici e privi di fuga dell’ospizio. Ashcroft gioca abilmente le sue carte e The Rule of Jenny Pen, ancor prima d’essere cinema horror duro e puro, rilegge e manipola con grande sapienza i topos del dramma in primo luogo e solo secondariamente del thriller psicologico, confondendo lo spettatore sempre più, per poi condurlo mano nella mano in un cammino di profonda inquietudine, ferocia, solitudine e rassegnazione.
Non è casuale infatti il doloroso e graduale percorso di emarginazione, vissuto e faticosamente elaborato dal giudice Stefan Mortensen. Colui che sempre è stato ascoltato e glorificato. Colui che ha sempre protetto e che a causa della malattia, si ritrova improvvisamente vulnerabile. Non è più capace di proteggere gli uomini dal male, né tantomeno di proteggere sé stesso. Ecco quando ha inizio la paura, quella reale e recondita, che accomuna ogni uomo ed ogni donna. Chi ci protegge nel momento di massima vulnerabilità? Chi ci protegge quando il male la fiuta, perseguitandoci sempre più?
È a Misery non deve morire di Rob Reiner, che James Ashcroft sembra rivolgere ben più di qualche sguardo. Altra memorabile riflessione sull’inferno casalingo di un uomo solo, che costretto a letto, non può far altro che subire le regole del male. Kathy Bates è morta in quella casa, Dave Crealy invece è ancora vivo e cammina indisturbato e silenzioso tra i corridoi notturni e bui dell’ospizio senza nome. Ad accompagnarlo le ombre della violenza, della morte e della marionetta, che come fosse un arto, vive in sua compagnia, senza mai sfuggirgli. Cosa anima realmente questo male? La speranza è che The Rule of Jenny Pen venga presto acquisito da qualche coraggioso distributore. Ci troviamo di fronte ad una grande idea di cinema e ad un secondo lungometraggio di un giovane regista sempre più promettente. È inquietante, spaventoso e reale. Non perdiamo di vista James Ashcroft, The Rule of Jenny Pen è memorabile.