The Sand Castle: recensione del film Netflix con Nadine Labaki
La recensione del film di Matty Brown con un’intensa Nadine Labaki nei panni di una naufraga su un’isola deserta. Dal 25 gennaio 2025 su Netflix.
Di film e serie con naufraghi e isole deserte ce ne sono un’infinità in circolazione, motivo per cui una pellicola come The Sand Castle, disponibile su Netflix dal 25 gennaio 2025, non partiva di certo con i favori del pronostico. Eppure quella di Matty Brown, qui all’opera prima dopo avere diretto svariati e pluridecorati cortometraggi, trova il modo di attirare l’attenzione e l’interesse dello spettatore con un racconto che cambia in itinere pelle e registri fino alla rivelazione finale. Il ché non consente al fruitore di prendere le misure e crearsi delle aspettative rispetto alle traiettorie evolutive della storia e dei personaggi che la animano. Merito di una sceneggiatura, scritta a sei mani da Hend Fakhroo, Yassmina Karajah e dallo stesso regista, che fa della mutazione genetica il modus operandi per rendere imprevedibili gli sviluppi e la conclusione.
Di contro, la materia narrativa e drammaturgica, così come gli intrecci con i quali viene intessuta, assumono contorni troppo celebrali che sfuggono un po’ di mano agli autori dello script e di riflesso alla sua trasposizione. L’esito, il fatto che sia solo parzialmente riuscito, dipende dunque da questi sali e scendi della lucidità nelle scelte e nella discontinuità nel modo di renderle operative e funzionali al racconto. È quindi tutta una questione di equilibrio che viene meno tra note positive e negative, con le seconde a prevalere sulle prime, a influire sul destino del film.
The Sand Castle propone un’interessante e imprevedibile mutazione genetica che viaggia tra il terreno, il sovrannaturale e il metaforico, ma i passaggi sono meccanici e troppo celebrali
The Sand Castle ruota attorno a una famiglia all’apparenza borghese, composta da Yasmine e Nabil e dai loro due figli, Adam e Jana, sperduta in un’’sola deserta. Come dimora hanno riadattato in modo confortevole un vecchio e variopinto faro che giganteggia sul picco meridionale del paradisiaco lembo di terra e ogni giorno tentano di mettersi in contatto con l’esterno attraverso una vecchia radiotrasmittente, fiduciosi del fatto che la luce della loro temporaneo rifugio possa fare il resto. Il problema è che sembrano essere lì ormai da parecchi giorni e nessuno è ancora giunto a trarli in salvo. Per di più non è dato sapere, se non in zona Cesarini, quali infausti eventi li abbia portati in un paradiso terrestre destinato a trasformasi con lo scorrere dei minuti in un inferno in mezzo al mare. Ed è qui che si consuma il valzer di generi sul quale si regge l’architettura narrativa di un film camaleontico che prende sembianze diverse lungo la timeline prima di assumere quella definitiva. Si passa così dal dramma familiare al classico survivor movie, dal sovrannaturale in cui prende corpo il perturbante con una forza estranea che altera la natura di ciò che è conosciuto all’horror con e senza presenze, prima di lasciare una volta per tutte il testimone alla metafora.
La confezione estetico-formale e le interpretazioni, a cominciare da quella di Nadine Labaki, sono i punti di forza del fil
Il tutto prende forma e sostanza sullo schermo grazie al lavoro davanti e dietro la macchina da presa. Davanti ci sono quattro interpreti che danno corpo e intensità alle emozioni cangianti dei rispettivi personaggi. Tra questi spicca il nome più altisonante nel cast a disposizione di Brown, ossia Nadine Labaki. L’attrice e regista libanese mette al servizio dell’opera e della figura della madre che le è stata affidata tutta la sua immensa bravura e presenza scenica, offrendo al pubblico un’altra straordinaria e commovente interpretazione capace di lasciare il segno come fu a suo tempo per Caramel o Cafarnao – Caos e miracoli. È lei il terminale di una recitazione che consente al film di toccare corde diverse. Al resto ci pensa la confezione che mette in mostra una grande cura formale e una notevole sperimentazione registica. Il cineasta statunitense, con la complicità del direttore della fotografia Jeremy Snell, porta sullo schermo una sequela di inquadrature e soluzioni tecniche dal forte impatto visivo che consentono alle immagini di calamitare a sé l’occhio dello spettatore.
The Sand Castle: valutazione e conclusione
L’opera prima di Matty Brown, conosciuto tra gli addetti ai lavori per la sua lunga gavetta sulla breve distanza, si caratterizza per una serie di alti e bassi che la rendono discontinua. Principale responsabile è una sceneggiatura che se da un lato propone un’interessante e imprevedibile mutazione genetica che viaggia tra il terreno, il sovrannaturale e il metaforico, dall’altra la mancanza di equilibrio e le meccanica artificiosa che accompagna i passaggi di tono e di generi ne depotenzializza l’efficacia. Ci pensano però l’ottima regia, la cura formale e l’impatto fotografico delle immagini, a permettere a The Sand Castle di tenere a sé lo spettatore, al quale la pellicola regala anche un’altra grande interpretazione di una straordinaria e intensa Nadine Labaki.