Venezia 80 – The Vourdalak: recensione del film di Adrien Beau
Il francese Adrien Beau debutta a Venezia 2023 con The Vourdalak. Non ci ha convinti del tutto, ecco perché.
Il francese Adrien Beau debutta alla Settimana Internazionale della Critica 2023 con The Vourdalak, un atteso (ma deludente) lungometraggio, l’adattamento di una novella del russo Aleksej Konstantinovic Tolstoj (cugino di secondo grado del più noto Lev): La famiglia del Vurdalak. Storia di vampiri a cui non basta il sangue di vivi ignoti.
“Se un figlio non è disposto a dare tutto al padre, allora significa che gli non dà niente“: Gorcha, partito per la guerra e tornato wurdulac, vampiro dannato a smaniare il sangue dei suoi cari, replica così al tentativo del terzogenito di farlo fuori. In questa battuta, al centro – se non strutturale, concettuale, del film – la chiave per comprendere la simbologia del mito e della sua trasposizione prima letteraria e ora filmica: il wurdulac non si accontenta del sangue dei vivi, ma esige il sacrificio di chi ama perché, proprio da questo sacrificio, trae la misura di quanto è amato (e, quindi, di quanto vale). I vivi di cui si desidera il sangue, sebbene prossimi, non vengono visti in sé e per sé, ma soltanto come funzionali alla sua sopravvivenza energetica, concepiti strumentalmente e opportunisticamente a fini narcistici e conservativi.
The Vourdalak: da una novella russa, un film francese sul vampirismo famigliare
Adrien Beau, già sceneggiatore e regista di corti, partecipa alla rassegna lagunare dedicata agli esordi con un lungometraggio tratto da una novella assai breve di Aleksej Konstantinovic Tolstoj, cugino di secondo grado dell’autore di Guerra e pace: s’intitola La famiglia del Vurdalak (in Italia edita da Elliot e tradotta da Anna Zanetello) e racconta di un cortigiano francese dai modi affettati, un alto funzionario di Stato che si perde in una selva straniera e si ritrova ospite di una famiglia gentile e inquietante: i figli, la nuora e il nipote del wurdulac-Gorcha, eroe della guerra contro i Turchi. L’intento dell’autore, più celebre come drammaturgo che come scrittore di narrativa è, in parte, satirizzare gli ambienti colti ed esclusivi dei burocrati e degli aristocratici, ‘indifesi’ di fronte alla manifestazione del vampirismo, traslato simbolico della complessa relazione tra pulsione libidica, vitale e generativa, e pulsione distruttiva. La civiltà russa, che ha inglobato l’iperciviltà francese, è posta a confronto con il ritorno del rimosso pulsionale e delle sue origini culturali, molto distanti dai valori razionalisti propri dell’Europa illuminista.
Il vampiro è, infatti, una figura del folklore balcanico che si è diffusa nell’Europa centrale e occidentale nella seconda metà del Settecento, grazie alla diffusione dei romanzi gotici. Più tardi, in epoca vittoriana, durante la quale le istanze repressive imbrigliarono la libera espressione della vitalità, la credenza in esseri mitologici demoniaci che, pur morti, non si decidono a transitare nell’aldilà ma continuano, affamati, a nutrirsi del sangue dei vivi rappresentò una minaccia all’equilibrio psicofisico delle persone facilmente suggestionabili. Il wurdulac – la trascrizione, dal russo вурдалак (“vampiro che divora cadaveri“), può variare a seconda delle lingue – è un genere di vampiro particolare perché non solo si nutre del sangue dei vivi, ma esige anche che questo sangue appartenga a famigliari o intimi amici. Assorbendone l’energia vitale, sessuata, trasforma anch’essi in vampiri, condannandoli a una viva morte o a una vita morta, sempre sul confine tra dimensione terrena e oltremondo.
The Vourdalak: valutazione e conclusione
Adrien Beau aveva dunque a sua disposizione un materiale straordinariamente sia complesso sia semplice, di una semplicità nucleare, a rapporto con il fondamentale. La matrice favolistica della fonte letteraria adattata a film si sarebbe prestata a letture simboliche e psicoanalitiche che però il regista sceglie di non azzardare, limitandosi a confezionare un film illustrativo dal passo lento e dall’estetica sfocata, insabbiata di una polvere che zigrina la superficie dell’immagine, una soluzione affascinante che, tuttavia, non riesce a distogliere l’attenzione dalla povertà drammaturgica, dal mancato lavoro di riscrittura – e di ripensamento – del mitologema. Resta intentata anche la riflessione intorno alle possibilità di elaborazione sociale della dialettica tra forze contrapposte: l’energia primitiva in lotta con la castrazione e gli agenti castratori. Il cast di attori esperti non aggiunge inoltre molto all’edificazione filmica, il cui impianto teatrale a tratti favorisce un necessario straniamento, a tratti produce un’impressione sospettiamo non ricercata di grottesco. Tra loro, anche Ariane Labed, attrice-Musa e sposa di Yorgos Lanthimos. Al regista greco e soprattutto ai suoi lavori iniziali, Beau avrebbe potuto e dovuto rivolgersi: in questa storia di inestinguibile sete c’è molto dei padri addomesticatori, ma non addomesticati/addomesticabili, vivi a spese dei figli, dei film con cui Lanthimos si è fatto spazio nel mondo del cinema; sicuramente c’è molto di Dogtooth e della sua vivisezione psicologica e sociale del cortocircuito autoritario, del totalitarismo rappresentato dalla famiglia che abbiamo a modello: quella che dai figli esige tutto, perché, in un’equazione spaventosa quanto culturalmente assimilata e spesso applaudita, non dare tutto equivale a non dare nulla. Adrien Beau sembra (meritoriamente) un autore a cui non interessa avere maestri, ma nondimeno – meno meritoriamente – sembra anche poco interessato a costruirsi da solo il suo magistero.