Till – Il coraggio di una madre: recensione del film tratto da una storia vera
La vera storia di Mamie ed Emmett Till è alla base di Till - Il coraggio di una madre, l'affresco storico diretto da Chinonye Chukwu che parla di dolore, amore e bisogno di giustizia. In sala dal 16 febbraio 2023.
La cosa peggiore che possa capitare a un film è di trovarsi dalla parte giusta della storia. Till – Il coraggio di una madre, regia di Chinonye Chukwu, ha un po’ questo problema. Nelle sale italiane dal 16 febbraio 2023 per una distribuzione Eagle Pictures, con Danielle Deadwyler, Jalyn Hall, Frankie Faison, Haley Bennett, Whoopi Goldberg e non solo. La nobiltà dell’operazione, molto semplicemente, non è in discussione. Non manca niente: un tema necessario, un approccio rigoroso, argomentazioni inoppugnabili, empatia istintiva, rilevanza storica. L’esempio civile e progressista, assolutamente luminoso, di Mamie Till-Mobley, che diventa un faro del movimento per i diritti civili in risposta al vergognoso omicidio a sfondo razziale del figlio Emmett, omicidio che tra l’altro, ma sarebbe meglio dire ovviamente, resta impunito, sorry feticisti dello spoiler, questa cosa andava chiarita subito, contiene in sé tutte le opportunità e le trappole del cosiddetto cinema edificante.
Till – Il coraggio di una madre riesce, in parte, a correggere alcuni limiti del cinema edificante
La prima regola del cinema progressista, ed è vera, è: chi lo fa ha sempre ragione. Non solo chi racconta. In primo luogo, hanno ragione tutti quelli che combattono, anche a prezzo della vita, per ciò in cui credono. Ha ragione il pubblico, che corre in sala per trovare conferma alla propria doverosa indignazione e, in fondo, autoassolversi. Ha ragione chi sostiene economicamente l’operazione. Tenendo a mente che le considerazioni che seguono e precedono semplificano molto una realtà complicata, il cinema d’impegno civile oggi in America è probabilmente lacerato da una doppia tensione. Da un lato il pragmatismo, con quel tanto di inevitabile cinismo, del calcolo produttivo (si finanzia quello che tira e oggi le tensoni razziali tirano). Altrove, l’eccesso di riverenza dell’autore sopraffatto dalla solennità della materia, talmente timoroso di offendere la sensibilità generale da risolversi al solito, inerte, istituzionale approccio. Finisce quasi sempre così: film poco coraggiosi sulla vita di persone molto coraggiose.
Vale anche per Till – Il coraggio di una madre. Mamie Till non avrebbe potuto, anche volendo, non sentirsi indignata, spezzata in due dal dolore. Era nel suo diritto di alzarsi in piedi e combattere, senza aspettarsi troppo, almeno all’inizio. Aveva ragione Mamie allora, ne ha da vendere oggi Chinonye Chukwu. A voler giudicare il film per come comincia e finisce, la sintesi sarebbe: elegante, benintenzionato, sobrio, interessante. Ma anche scolastico, ordinario, poco immaginativo. E invece, proprio nel mezzo, una scelta di regia semplice e coerente, che non ne riscatta del tutto le debolezze, ma lascia intravedere una possibilità, una speranza, un modo migliore di fare le cose. Un buon inizio.
Till – Il coraggio di una madre: un crimine atroce e la risposta ferma e dignitosa di una donna
L’immagine qui sopra corrisponde più o meno al momento in cui, senza volerlo, senza saperlo, senza motivo, Emmett Till (Jalyn Hall) firma la sua condanna a morte. Ha solo 14 anni nel 1955, quando infrange una delle più severe regole non scritte del Mississipi segregazionista e impunito: rivolge la parola, un timido apprezzamento, a una donna bianca. Alla metà degli anni ’50, negli Stati del Sud, se un nero parla a una donna bianca, il nero è un uomo morto. Un quattordicenne morto. Inevitabile? La donna, che si chiama Carolyn Bryant (Haley Bennett), potrebbe, con un sussulto di decenza, bloccare tutto. Far finta di non riconoscerlo quando i “giustizieri” lo reclamano, comportarsi da essere umano. Potrebbe evitare di sentirsi insultata quando Emmett le parla. Potrebbe, non fa. Il risultato è una morte orribile.
A peggiorare le cose, Emmett non è del posto e sua madre Mama Till Mobley (Danielle Deadwyler) non voleva mandarcelo. Emmett è di Chicago, le storture del Sud le capisce ma fino a un certo punto. Nel Mississippi il ragazzo ha dei parenti, ci va in vacanza (e a lavorare) spinto calorosamente dalla nonna (Whoopi Goldberg), che finirà per sentirsi terribilmente in colpa, dopo. Un mucchio di persone si sentono in colpa in Till – Il coraggio di una madre, mai però quelle che dovrebbero. La colpevolizzazione delle vittime è una conseguenza decisiva e anche un presupposto dei crimini d’odio, suggerisce il film in modo asciutto e implacabile. Quanto a Mamie, che con il figlio conserva un rapporto strettissimo, simbiotico, dipende anche dal fatto che il papà è morto in guerra, ora la donna ha un nuovo compagno, lascia sì partire Emmett ma inquieta, perché conosce i rischi. La morte del ragazzo la travolge come un fiume in piena, comprensibile, ma non la riduce al silenzio.
Il punto di vista è sempre e comunque quello di Mamie. Till – Il coraggio di una madre è la storia di una donna costretta dalle circostanze a trasformarsi in un santino progressista, quando tutto quello che voleva era di veder crescere suo figlio. Una richiesta tutto sommato ragionevole, tranne che per lo stato del Mississippi. Più ancora, il film è la storia di quelli che restano e devono trovare il modo di tirare fuori il meglio da una situazione che di giusto non ha niente. Mamie diventa una colonna del movimento per i diritti civili proprio a partire dal modo in cui reagisce, sostenuta, in alcuni casi indirizzata, da chi le sta intorno. Inizialmente non le vorrebbero restituire neanche il corpo di Emmett.
Lei però insiste, se lo fa portare a Chicago e, quando se lo trova davanti, misura finalmente l’enormità dello sfregio, il corpo impietosamente sfigurato dal linciaggio. Ha un’intuizione: lasciare che tutti vedano. Dispone che la bara resti aperta, al funerale, per i giornalisti, i parenti, chiunque sia interessato. Il delitto riguarda tutti e come tale deve essere affrontato, perché i colpevoli siano inchiodati alle rispettive responsabilità morali. Giuridicamente, le speranze di un verdetto congruo sono pari a zero. Mamie questo lo sa, ma va a testimoniare al processo lo stesso. Mamie lascia la bara aperta. Anche il film. In questa piccola grande prova di coerenza è racchiuso quanto c’è di apprezzabile in Till – Il coraggio di una madre.
Perché è importante lasciare la bara aperta
Mamie lascia la bara aperta e spettacolarizza il lutto, lo trasporta dal piano della sofferenza privata al consumo pubblico. Offrendo all’attenzione del mondo il corpo martoriato del figlio, strumentalizza deliberatamente il dolore per scuotere le coscienze, rivendicare giustizia, riconoscere la necessità di un cambiamento. Chinonye Chukwu lascia la bara aperta, concettualmente. Punta la macchina da presa sullo strazio della madre e non arretra di un millimetro, non si e ci risparmia niente delle lacrime, delle grida di dolore, della consapevolezza del vuoto. Ed è insostenibile, il momento, è lungo, troppo lungo, volutamente lungo, davvero vorremmo essere da un’altra parte piuttosto che lì dove stiamo, costretti a sperimentare una sofferenza così. Ma non si può, non si deve, essere altrove. A modo suo Till – Il coraggio di una madre ci ricorda, un film per la sala, non si discute, che al cinema è più difficile, spiritualmente e materialmente, voltarsi dall’altra parte.
Mamie “usa” il sacrificio del figlio. La base di ogni attivismo, in effetti, è anche questo: la strumentalizzazione consapevole delle ferite individuali e collettive nel nome di un mondo più giusto. In questo senso, nel suo insostenibile segmento centrale, Till – Il coraggio di una madre sembra indagare in maniera costruttiva il rapporto molto ambiguo tra fatti e drammatizzazione. Proprio perché sceglie di mostrare le mani di Mamie che indugiano sul corpo sfigurato di Emmett, le piaghe, il volto irriconoscibile, Chinonye Chukwu dimostra di sapersi tenere bene in equilibrio tra l’indiscrezione del gesto e la nobiltà delle intenzioni. Qualche volta, la cosa più giusta da fare è spiare la vita dal buco della serratura. Vale per Till – Il coraggio di una madre e per tante altre storie, affini per impostazione e filosofia. Un primo passo, imperfetto, assolutamente incompleto, verso un cinema più radicale, provocatorio, completo.
A conti fatti, un film sull’amore, l’amore di una madre opposto all’odio istituzionalizzato della società. Ancora di più, un film sul dolore e il suo trattamento. Till – Il coraggio di una madre riesce a forzare i limiti del cinema progressista, istituzionale, solo per un po’, ma non è poco. Buona parte del racconto fila via con competenza, rigore, ma anche un eccesso di moderazione che non funziona da contrappunto all’impetuoso brano centrale. Aver sbarrato le porte all’indifferenza grazie al coraggio di guardare in faccia l’orrore, aver scelto di mettere gli occhi della madre in primo piano e, cosa ancor più importante, averci mostrato cosa guardano quegli occhi, è già qualcosa.