To Catch a Killer – L’uomo che odiava tutti: recensione del film con Shailene Woodley
To Catch a Killer non è un cattivo thriller psicologico, né un brutto film, ma delude per la sua superficialità nel trattare temi delicati e profondi.
To Catch a Killer – L’uomo che odiava tutti, diretto da Damián Szifron e co-sceneggiato con Jonathan Wakeham, si presenta come un thriller ambizioso che cerca di esplorare le falle dei sistemi americani attraverso la lente del genere cinematografico dei serial killer. Il film si apre in maniera drammatica, con un attacco di un cecchino che lascia 29 vittime nella notte di Capodanno. Tra coloro che rispondono alla chiamata di emergenza c’è Eleanor Falco, interpretata da Shailene Woodley, una giovane agente di polizia di Baltimora, che si ritrova immediatamente immersa in un’indagine che mette in luce la corruzione e le priorità distorte di diverse istituzioni governative.
Ben Mendelsohn interpreta Geoffrey Lammark, il capo investigatore dell’FBI, che cerca di motivare le forze dell’ordine a considerare il sospettato non come un semplice stereotipo, ma come un individuo con una storia personale complessa. Questo tentativo di umanizzare il nemico è una premessa intrigante, ma la sceneggiatura non riesce a sviluppare appieno queste idee, rimanendo spesso in superficie.
To Catch a Killer: un thriller psicologico che non entra nel vivo della patologia mentale
Il film aspira a criticare non solo la polizia e l’FBI, ma anche i politici, i media, il complesso militare-industriale e l’accesso limitato alla salute mentale negli Stati Uniti. Tuttavia, queste ambizioni travolgono la narrazione, portando a una trama eccessivamente elaborata e a personaggi poco sviluppati. Nonostante la raffinata cinematografia di Javier Juliá, che offre immagini stilose e ben illuminate, il film scivola spesso nel cliché, con momenti che tentano di sembrare profondi ma che risultano banali e didascalici.
L’introduzione di Eleanor Falco come personaggio ricorda quella di Angelina Jolie in Il Collezionista di Ossa, ma senza la complessità e il carisma necessari. Dopo la sparatoria, un’esplosione in un appartamento vicino la costringe a reagire rapidamente, suggerendo agli altri agenti di registrare i volti dei fuggitivi. Questo momento, che avrebbe potuto stimolare una riflessione sullo stato attuale della sorveglianza, rimane un’occasione sprecata.
Successivamente, Eleanor dimostra di avere una mente acuta, contribuendo all’indagine con intuizioni non convenzionali, come la scoperta che il killer potrebbe avere una carenza di ferro e quindi potrebbe essere vegetariano. Questo porta Lammark a ritenere che Eleanor possa essere un valido alleato, assegnandole il compito di collegamento tra il Dipartimento di Polizia di Baltimora e l’FBI. Tuttavia, il film si perde rapidamente in sequenze investigative prevedibili, che non aggiungono profondità alla trama.
Il personaggio di Lammark, nonostante i tentativi di Mendelsohn di conferirgli complessità, rimane una figura stereotipata. Le sue interazioni con il marito, Gavin, sfociano in dialoghi che sembrano forzati e poco naturali. La rappresentazione di Lammark come un poliziotto duro e poetico risulta ridondante, specialmente in confronto ai profili affascinanti di personaggi come Will Graham in “Hannibal”.
Il tentativo di posizionare Eleanor come una “Clarice Starling moderna” fallisce, poiché Woodley non riesce a trasmettere la complessità emotiva richiesta dal ruolo. Le scene che dovrebbero mostrarla come una solitaria contemplativa, come tornare nel suo appartamento o nuotare da sola, si sentono più come caricature del personaggio archetipico che come momenti di autentica introspezione.
To Catch a Killer riesce a mantenere un certo interesse per circa due terzi della sua durata, ma la rivelazione che l’FBI avesse inizialmente rifiutato Eleanor per il fallimento di un test psicologico mina l’intera premessa. La sua presentazione come un’anima torturata a caccia di giustizia si rivela poco convincente, soprattutto quando la scena culminante con il killer non riesce a generare l’emozione prevista, lasciando Woodley priva del gravitas necessario per portare a termine il confronto.
Il dialogo raggiunge il suo picco di imbarazzo quando Eleanor, nell’affrontare il killer, pronuncia la frase goffa: “Medication. That shit works.” Questa battuta, insieme ad altre, evidenzia un problema più ampio: il film non riesce a trattare in modo adeguato le questioni di salute mentale, riducendo la sua critica ai sistemi che hanno fallito a una mera superficialità.
To Catch a Killer: valutazione e conclusione
To Catch a Killer non è un cattivo thriller psicologico, né un brutto film, ma delude non solo per la sua incapacità di sviluppare personaggi complessi, ma anche per il modo in cui affronta tematiche di grande rilevanza sociale. Pur con ottime intenzioni, il film si perde in un labirinto di cliché e dialoghi poco efficaci, tralasciando una vera riflessione critica su ciò che alimenta la violenza nella società contemporanea. Guardabile ma non profondo.