Tori e Lokita: recensione del film dei fratelli Dardenne
Tori e Lokita, per la regia dei fratelli Dardenne, è la storia di una bellissima fratellanza su uno sfondo di ingiustizia e soprusi. Al cinema dal 24 novembre 2022.
Il cinema dei fratelli Dardenne, Jean-Pierre e Luc, poggia sulla coerenza di uno sguardo tenacemente in direzione ostinata e contraria. Tori e Lokita, Premio Speciale per il 75° anniversario al Festival di Cannes 2022, nelle sale italiane il 24 novembre 2022 per una distribuzione Lucky Red, non tradisce la filosofia e la cifra stilistica della pluripremiata coppia di autori belgi. A conti fatti, la storia di due persone e il ritratto di un’amicizia più forte della vita. Un patto di fratellanza firmato a dispetto di tante cose spiacevoli, il dove e il quando è il Belgio di oggi, per i Dardenne e chi li ama la plastica rappresentazione della false promesse, delle storture e delle ipocrisie delle moderne società del benessere. Con Joely Mbundu e Pablo Schils.
Tori e Lokita è una questione di sguardi e riconoscimento
Tori (Pablo Schills) e Lokita (Joely Mbundu) sono fratelli, ma il sangue non c’entra. Nascono in paesi diversi e da madri diverse e anche se può sembrare che abbiano poco da spartire, in verità non è così. Dallo scontro fortuito di due destini nasce un legame prezioso e straordinario, forse anche indispensabile, nel momento in cui il mondo intorno cerca in ogni modo di sbarrargli la strada. Il cinema dei fratelli Dardenne è questione di sguardi e riconoscimento. Tori e Lokita conferma la vicinanza degli autori, una presenza sincera e civilmente nobile, nei confronti dell’umanità marginale, tradita, esclusa, abusata. Nel film c’è un po’ di tutto questo.
I due ragazzi, che hanno l’età per andare a scuola ma ovviamente a scuola non ci vanno, arrivano in Belgio dall’Africa passando per l’Italia. Questo lo spettatore si limita a intuirlo perché ai Dardenne preme di arrivare il più rapidamente possibile al qui e ora. Alla cronaca serrata, progressivamente sempre più opprimente, dei piccoli e grandi sforzi messi in campo dai protagonisti per ritagliarsi una nicchia di sopravvivenza e dignità del vivere all’interno di una società che fa di tutto, non solo per respingerli, ma anche per disconoscere la forza di una fratellanza costruita sul campo. Sul fondo di un comune riconoscimento e di una comune condizione.
Tori e Lokita, si è già detto, coerentemente con il respiro del cinema dei fratelli Dardenne, è questione di sguardi e riconoscimento. Il riconoscimento dell’umanità, della complessità e della profondità dei bisogni e delle necessità dei due protagonisti, al di là delle categorizzazioni a due dimensioni (rifugiati, migranti, irregolari…) e degli steccati ideologici. E uno sguardo aggiustato, fissato alla distanza appropriata, quella dell’empatia e dell’umanità. Tori e Lokita lavoricchiano in un ristorante italiano, intrattengono i clienti cantando e nel repertorio inseriscono anche una canzone che gli insegna una donna in Italia. La imparano al loro arrivo e non la scordano più. Tutti gli spettatori italiani conoscono Alla fiera dell’est e tutti sanno chi è Angelo Branduardi. Questione di bagaglio culturale e di condivisione di un immaginario. Tutt’altro che casuale, la scelta del pezzo; la circolarità delle struttura, le parole che tornano e la suggestione fiabesca, ogni cosa contribuisce a “tradire” il film e i suoi segreti, con chirurgica precisione.
Cinema e umanità, la semplicità difficile di Tori e Lokita
Tori e Lokita, più in generale (e forzando un po’ il ragionamento) vale la pena di aggiungere il cinema dei fratelli Dardenne, si nasconde nell’inquadratura che apre il film e che, nel bene e nel male, ne condiziona il senso. La macchina da presa aggangiata al volto di Joely Mbundu. Una voce fuori campo che la interroga, per metterla alla prova, misurando la consistenza delle sue affermazioni. La posta in gioco è la promessa di un futuro stabile in Belgio e Lokita commette un errore. La voce impersonale e incorporea vale, in fondo, l’inerzia morale della modernità democratica europea. La vicinanza della macchina da presa, il bisogno congenito al cinema di Jean-Pierre e Luc Dradenne di riconoscere nomi, volti, carne e vissuto degli esseri umani, non dei personaggi, che sceglie di raccontare. Nelle lacrime di Lokita l’intuizione che il rifiuto non misura solo l’indifferenza del mondo che le sta attorno, ma anche il disconoscimento di una fratellanza bellissima e molto moderna, costruita sul e contro il sopruso.
Joely Mbundu e Pablo Schils, entrambi non professionisti, davvero bravi dall’inizio alla fine, incarnano incertezze, umanità, il colore delle rispettive età e più in generale un respiro dignitoso. Il legame che li unisce, che li rende fratelli, è una faccenda scopertamente sentimentale e inconsciamente politica. Ai fratelli Dardenne non preme evidenziare soluzioni pratiche per affrontare i problemi connessi alla gestione dei flussi migratori e alla questione dell’accoglienza, il loro è cinema politico ma lateralmente, senza l’ossessione del manifesto. Tori e Lokita ribatte all’ingiustizia opponendole una valorosa cortina di solidarietà, restituendo fisicità alle vite e ai bisogni degli emarginati. Scuote la coscienza di un pubblico intorpidito dalle semplificazioni, dalle troppe parole a vuoto e da un bel carico di disumanità.
Tori e Lokita è la cronaca di un’amicizia bellissima e di un viaggio faticoso. Una narrazione serrata e un incedere incalzante, restituiti in molti modi ma quello che resta è la circolarità di Alla fiera dell’est. Una fiaba al contrario, formalmente sorretta da una macchina da presa nervosa ma non distratta, che tratteggia l’intimità dei protagonisti non nascondendo(si) niente, assolutamente niente, dei tanti abusi, piccoli e grandi, che lastricano la corsa a ostacoli verso l’accoglienza. La violenza del film è implicita, più suggestione che esposizione morbosa. Gli spazi bianchi lasciati all’immaginazione aggiungono un surplus di asprezza, va tenuto conto che nel caso di Lokita, giovane donna, si aggiunge un abuso in più e una violazione in più.
Il cinema dei fratelli Dardenne è umanità e umanesimo. Coniuga realismo sociale e verità dei sentimenti, empatia e rigore formale. Se la proposta cinematografica dei due fratelli ha forse perso negli anni parte della radicalità originaria, non è venuta meno la voglia di stare in mezzo alle cose e alle persone. Un cinema realista ma d’eredità chapliniana, un Chaplin arrabbiato che non ha nessuna voglia di far ridere, lì dove la dolcezza dello sguardo posato sui cosiddetti ultimi fa da contraltare alla durezza degli esiti. Ecco, se è vero che tutto il cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne sta nell’immagine che apre Tori e Lokita, è un’esagerazione ma corretta da uno spiraglio di verità, forse quello che manca oggi, al film e più in generale alla visione d’autore del duo, è la capacità di dare un volto e un corpo alla voce fuori campo. C’è un fondo d’umanità anche nei toni algidi di chi respinge i bisogni dei due protagonisti. Il film guarda in faccia la violenza, il resto è opaco. Per un cinema che sa guardare lontano, ci si potrebbe spingere anche oltre.