Tredici vite: recensione del film di Ron Howard
In Tredici vite Ron Howard racconta l'incidente di Tham Luang utilizzando il linguaggio tipico dei blockbuster drammatici.
Dal 5 agosto è disponibile su Prime Video, Tredici vite di Ron Howard. L’autore di Apollo 13 (1995) torna a raccontare una storia di coraggio, tratta da eventi realmente accaduti.
In Thailandia, tra fine giugno e inizio luglio 2018, una squadra di calcio giovanile, composta da dodici ragazzini, fece un’escursione, insieme al loro coach, nelle caverne di Tham Luang, poco prima dell’inizio di una forte pioggia. Le caverne si allagarono e i ragazzini e il coach rimasero bloccati sottoterra. Le operazioni di salvataggio durarono diciotto giorni e coinvolsero volontari e militari, provenienti da tutte le parti del mondo.
In Tredici vite Howard inizialmente cerca di restituire un affresco corale, usando un punto di vista onnisciente, che sposta il focus continuamente dalle famiglie dei ragazzini alle operazioni dei Navy SEAL thailandesi, dal governatore della regione che deve gestire i rapporti con i media alle vicende dei volontari, accorsi per dare una mano. Tuttavia, ben presto, il suo campo d’interesse si restringe a due volontari inglesi, gli esperti in salvataggi subacquei Richard Stanton (Viggo Mortensen) e John Volanthen (Colin Farrell). Furono loro infatti a trovare per primi i ragazzini e, successivamente, dopo che i due formarono una propria squadra, fu uno dei loro uomini, l’anestesista Richard Harris (Joe Edgerton), a elaborare la soluzione più idonea per riuscire a trasportare i tredici dispersi fuori dalle caverne allagate.
Il film si presenta superficialmente come una ricostruzione di fatti reali. Il regista però utilizza il linguaggio tipico dei blockbuster drammatici, per impostare un racconto emotivo, perfetto da un punto di vista tecnico, che tuttavia non riesce a essere pienamente coinvolgente, a causa di una esagerata dilatazione dei tempi, in alcuni momenti cruciali della storia.
Tredici vite: narrazione parallela degli avvenimenti, punti di vista impossibili nelle riprese subacquee, accelerazioni e rallentamenti del ritmo del montaggio atti a creare tensione
Dialoghi rielaborati in termini hollywoodiani, con battute degne di eroi action per Harris e Volanthen, ricordano inoltre, costantemente, allo spettatore che si trova davanti a un insieme di immagini il cui statuto è quello di un’opera di finzione. Ovvero di una finta narrativa atta a restituire non i fatti così come sono avvenuti, ma una visione specifica del mondo in cui gli eventi si sono svolti. Allora la scelta di focalizzare la narrazione principalmente sui salvatori inglesi, per quanto di primo acchito possa apparire determinata dalla realtà storica, a una più attenta visione risulta il frutto di una logica radicata nel cinema americano classico. Quella che prevede al centro della propria narrativa un eroe o degli eroi, che rappresentino il primato individuale nei confronti dell’ambiente naturale o sociale che li circonda. Tale istanza determina un linguaggio figurativo specifico che vuole, da un lato, piani ravvicinati dei protagonisti, un uso drammatico dei primi piani e la costante ricerca della centralità da parte della figura eroica nell’inquadratura. Dall’altro lato, fanno da controcanto a queste immagini, le rappresentazioni di un paesaggio naturale selvaggio, costituito da campi lunghi e dettagli inconsueti, volti a rendere l’idea romantica di una natura sublime, maestosa e minacciosa, nella cui conquista l’uomo può trovare quasi un significato ontologico.
Ron Howard segue una traiettoria formale che va dall’universale al particolare
In Tredici vite sono presenti entrambi questi elementi. L’utilizzo che Howard ne fa è didascalico. L’autore segue infatti una traiettoria formale che va dall’universale al particolare. Nei momenti iniziali e corali del film mostra il paesaggio/setting, inserendo i thailandesi nel loro ambiente, attraverso campi lunghi e medi e concentrandosi sulla natura e la forza degli elementi, rappresentati dall’acqua e dalla terra. Inoltre restituisce una Thailandia esotica, da cui sono espulsi fattori come l’estrema povertà, la violenza e la fame. In questa ricostruzione indici di familiarità per lo spettatore occidentale, come il calcio o Sponge Bob, si mescolano a usanze arcaiche, leggende folkloriche (la principessa dormiente) e a uno spirito di abnegazione paradigmatico del mondo contadino asiatico, secondo la visione occidentale. Nel momento in cui entrano in scena i protagonisti inglesi, che per procura diventano portatori dello sguardo occidentale/statunitense, i primi piani e i campi ristretti aumentano, fino ad arrivare alle scene del salvataggio vero e proprio. In queste il paesaggio è completamente annullato e lo spazio simbolico di azione è un limbo acquatico sospeso fra le rocce, in cui si muovono i corpi stessi degli eroi, trasmutati dalla tecnologia subacquea. Tali corpi infine si configurano come i protagonisti assoluti dell’immagine e dunque come i conquistatori di quello spazio, simbolo di una natura ridotta unicamente ai suoi elementi di minaccia per l’uomo.
In questa mitologia che vede l’esaltazione dell’umano – dell’umano occidentale/americano, in particolare – attraverso il coraggio e lo spirito d’iniziativa (la tecnica/tecnologia), sta il nucleo fondante dei generi classici di Hollywood e dell’ideologia capitalista che li regola. Lo spirito d’iniziativa è infatti spirito d’impresa, che diventa facilmente impresa colonizzatrice. Risiede tutta qui la debolezza concettuale dell’operazione estetica di Howard. Questa chiaramente non si pone come un’esaltazione di un qualche moderno colonialismo. Ma non può far a meno di inscenare, attraverso la sua aderenza formale a una specifica tradizione del linguaggio filmico, un’antica fantasia tipica della retorica colonialista. Quella dei salvatori bianchi che risolvono i guai di un popolo esotico.
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