Trifole – Le radici dimenticate: recensione del film di Gabriele Fabbro
Trifole è una favola antica e moderna, un viaggio di iniziazione.
Ci sono piccole storie, semplici che sembrano favole e che parlano di rinascita, di crescita e cambiamento, questo è Trifole – Le radici dimenticate, film di Gabriele Fabbro, che arriva in sala il 17 ottobre 2024, portando sullo schermo un nonno e una nipote alla ricerca di un “oggetto magico”, una conoscenza tra tradizione tenuta protetta tra le mani e futuro in bilico, spaventato e spaesato, incapace di spiccare il volo. Fabbro, dopo The Grand Bolero, intona un canto d’amore verso la natura grazie ai suoi personaggi, alla giovane londinese Dalia (Ydalie Turk che è anche cosceneggiatrice del film assieme a Fabbro) e a Igor, suo nonno, (Umberto Orsini), anziano cacciatore di tartufi che da anni vive isolato nelle campagne insieme al cane Birba. L’uomo, in preda alla demenza senile, è a rischio di sfratto, l’unica soluzione per riuscire a mantenere la casa è trovare una trifola di grandi dimensioni da poter vendere alle aste che si svolgono periodicamente ad Alba. Igor deve fidarsi di Dalia e lei deve prendersi cura del nonno e aiutarlo anche se si tratta di un mondo molto lontano da lei.
Trifole – Le radici dimenticate: c’era una volta una nipote, un nonno e un tartufo..
Come succede nelle favole, c’è qualcosa che rompe lo status quo. Dalia arriva a casa – che sta andando a pezzi (il rubinetto perde, i fili elettrici scoperti, i muri scrostati) – del nonno Igor che lei praticamente non conosce, spinta dalla propria madre (Margherita Buy), l’uomo vive nelle Langhe, in un paradiso quasi. Igor lavora, va alla ricerca del tartufo, si occupa dei suoi luoghi, di Birba, mentre dimentica, perde, ignora. Qui giunge Dalia, con il nome di un fiore, per prendersi cura ma forse con il bisogno profondo di essere “curata” lei stessa. In profonda crisi, la giovane entra nel casale di Igor da “sconosciuta”, chiamando più volte, chiedendo se può entrare, quasi lo stesso atteggiamento con cui vive, e verrà travolta da tutto, da lui, da Birba, dai tartufi. Anche grazie al cane, i due si avvicineranno parlandosi, raccontandosi di passati e presenti, di vittorie e fallimenti. Quando il nonno si infortunerà e non potrà andare alla ricerca di un mitico tartufo da record, Dalia prende il suo posto e si avventura per i boschi delle Langhe, affrontando pericoli naturali, la concorrenza spietata degli altri cercatori di tartufo, ma soprattutto se stessa e i suoi limiti.
Trifole è un incontro, è una favola in cui una ragazza aiuta il nonno e così facendo aiuta sé stessa, è un coming of age, in cui Dalia è alla ricerca di risposte. Uno dei centri è il rapporto di diffidenza iniziale tra i due personaggi, soprattutto da parte del nonno, e l’intesa che prima o poi nascerà. Dalia e Igor non si sentono e non si vedono da tanti anni, sanno poco l’uno dell’altra, tutto è da ricostruire, la fiducia, la conoscenza, la vicinanza – Dalia parla in inglese, ennesimo elemento che li fa stare lontani -, ogni cosa è da rimettere nelle caselle giuste.
Trifole – Le radici dimenticate: un viaggio profondo che scava nel terreno ma anche dentro i personaggi
Attraverso Dalia e Igor si racconta un viaggio profondo che scava dentro l’anima con la speranza di trovare risposte e ritrovarsi. Si tratta anche di un film sulla memoria, sul passato e sul presente, sul dialogo tra ieri e oggi e tutto gira intorno a nonno e nipote. Tutto in quel casolare parla, le pareti, gli oggetti hanno in loro aneddoti, memoria che riempie i vuoti e che aggiungono dove manca. Dalia vede il muro della casa tappezzato di storie e premi che il nonno ha ricevuto e dal canto suo il nonno può raccontare alla giovane piccole e grandi storie, in lei si rivede e di lei ha bisogno. Lui è un mentore che può insegnare all’eroina e dare strumenti utili alla ricerca.
A Igor serve Dalia, deve consegnarle i suoi segreti, miti ancestrali che solo un certo tipo di tradizione porta con sé, la trifola – che dà il titolo al film -, termine ereditato dal piemontese ottocentesco, è un oggetto del desiderio, l’oggetto magico delle favole che spinge al viaggio e all’avventura. Il tartufo porta con sé un mito affascinante, frutto dei fulmini scagliati da Giove durante le piogge, su cui si costruisce rapporti, percorsi, storia stessa, e non è un caso che il sottotitolo sia le radici dimenticate. Esse sono materia importantissima per Fabbro, interessato veicolare la memoria che andrebbe persa e quelli come Igor tramandano, portano avanti, curano e consegnano tali memorie come fossero oggetti preziosi.
La ricerca delle proprie radici nel film di Gabriele Fabbro
Cambia verso il viaggio di Dalia e il film. Quando la giovane parte con il suo kit di sopravvivenza, il ritmo si fa più avventuroso, più azione e meno riflessione e preparazione al viaggio. Lì, tra le foglie e la terra, tra gli alberi e la bruma, l’eroina deve superare prove, essere forte, combattere con le unghie e con i denti, seguendo gli insegnamenti del nonno. Non vuole fallire perché ha già fallito in passato, non vuole tornare indietro e dire al suo “mentore” che non ha portato a termine il compito. L’ansia aumenta, il bosco non è sempre amico e la rivalità con altri cercatori, rende ogni cosa più complessa. Trifole è la storia di una giovane che trova la sua strada, che proprio in queste radici, anche cadendo e perdendo la via, matura e “diventa grande”. L’atarassia in cui era rimasta intrappolata, ha lasciato il posto ad una combattente, forte e coraggiosa, nipote di quel nonno prima sconosciuto.
“Un paese ci vuole”, citazione pavesiana, è il giusto riassunto di questo piccolo film che porta lo spettatore in un mondo arcaico, fatto di storie antiche e di rapporti solidi.
Trifole – Le radici dimenticate: valutazione e conclusione
Trifole è una favola antica e moderna, un viaggio di iniziazione in cui una giovane donna persa trova la propria strada e di un uomo anziano che consegna il suo bagaglio a chi può usarlo per i “percorsi” futuri. Fabbro scrive e compone un film a cui tiene, si percepisce chiaramente, compone una poesia che porta al centro il rapporto uomo-natura, “padre e figlia” (tradotto qui in nonno e nipote), tradizione e “innovazione”.
Tra cagnolini e lupi, tra tartufi “giganti”, le langhe si dischiudono davanti ai nostri occhi e parlano alle “nostre radici”.