Troppo Azzurro: recensione del film di Filippo Barbagallo
Un film piccolo e meraviglioso quello di Filippo Barbagallo, che da esordiente firma un cinema puro, sincero e nostalgico al punto tale da ricondurci ai nostri primi amori, corrisposti oppure no, costringendoci a fare i conti con noi stessi e così con la nostra capacità o incapacità d’amare. In sala dal 9 maggio, distribuzione a cura di Vision Distribution
Sono diverse le tipologie d’incontro che ciascuno di noi sperimenta quotidianamente, senza tuttavia farci caso fino in fondo. Eppure, guardando a questa moltitudine di varianti, stati d’animo e frammenti di vite, raggiungiamo l’improvvisa consapevolezza circa l’esistenza di due sole tipologie d’incontro profondamente belle e soddisfacenti, comunque vadano le cose, bene, male, oppure a metà. C’è infatti l’incontro desiderato e atteso da tempo e c’è l’incontro inaspettato. Da una parte abbiamo già pensato a ciò che avremmo fatto se, dall’altra invece il caos, l’improvvisazione, la messa a nudo, o al contrario, la scelta spesso e volentieri fallimentare d’indossare una maschera, pur di interessare, o farci ricordare.
Dario (Filippo Barbagallo tra nevrosi, paranoie, crisi d’ansia ed evidenti istinti da narcisista consapevole) è il protagonista di Troppo Azzurro e si muove proprio tra queste due tipologie d’incontro. In ballo però non c’è esclusivamente l’amore, piuttosto la presa di coscienza su ciò che di fatto è – o meglio, tutti noi siamo – quando i riflettori si spengono, l’innamoramento lentamente fa spazio a nuovi stimoli, le paure non fanno che aumentare e tutto ciò che resta è la solitudine.
Facciamo i conti con l’amore, facciamo i conti con noi stessi
È quasi estate a Roma e ognuno organizza le proprie vacanze. C’è chi è in coppia, chi lavora e chi invece resta solo. Eppure, quando la monotonia, la noia e l’abitudine prendono il sopravvento, il caos e così l’inaspettato fanno capolino, mostrando la loro presenza anche nella più banale, rigorosa e assolutamente convenzionale delle esistenze.
L’inaspettato è Caterina (Alice Benvenuti in una prova dolcissima, si rivela capace di far innamorare per le sue parole e così per la sua bellezza, perfino lo spettatore più disinteressato ed estraneo a tutto ciò che è sentimentalismo e racconto d’amore) e l’incontro tra quest’ultima e Dario, non può che avvenire proprio nel luogo al quale tutti noi ci rivolgiamo per curare le nostre ferite e i nostri dolori, riparando ad incidenti, cadute improvvise o timori che qualcosa non vada come dovrebbe, ossia, all’interno di un ospedale.
Da lì, l’amore, quantomeno da parte di Caterina. Poiché quest’ultima non sa che Dario, l’amore lo ha già immaginato, seppur non corrisposto e l’oggetto di tale desiderio non è lei, piuttosto la bella ed inarrivabile Lara (Martina Gatti è splendida in un lavoro di ribaltamento dei generi che raggiunge il suo apice nella consapevolezza improvvisa del “un altro caso umano!”). Nel frattempo, il caldo torrido, la presenza di sottofondo eppure preoccupata dei genitori (Valerio Mastandrea e Valeria Milillo), gli amici di una vita e la paura di mettersi alla prova e di farlo fino in fondo.
Un film che prima e più di ogni altra cosa è una boccata d’aria fresca, rispetto alla sua volontà così sincera, reale e per questo sorprendente di raccontare l’amore, o presunto tale, che solo a vent’anni ci si può convincere di provare e così l’amicizia e quello interpretato dal sempre ottimo Brando Pacitto – che di fughe estive da Roma se ne intende eccome, dopo il meraviglioso L’estate addosso di Gabriele Muccino – è l’amico che tutti noi vorremmo avere accanto nel corso della nostra crescita. Tra imperfezioni caratteriali ed estetiche, paranoie nient’affatto motivate, emotività in preda al caos, errori inevitabili, parole non dette e così il loro opposto, cioè parole dette in eccesso e mai provate e pensate realmente e ancora l’individuale consapevolezza d’essere irrisolti, i protagonisti di Troppo Azzurro si muovono un po’ goffamente e un po’ dolcemente tra scelte d’amore e scelte di dolore, in una Roma per certi versi assente e forse proprio per questo così attraente.
Filippo Barbagallo, giovane autore classe ’95, dopo aver maturato diverse esperienze in qualità d’assistente alla regia, esordisce al lungometraggio come regista, sceneggiatore e interprete principale di Troppo Azzurro, un piccolo film con un grande cuore. Per la prima volta – e da tempo aspettavamo che qualcuno lo mostrasse -, non ci viene raccontato l’amore giovane come qualcosa di assolutamente perfetto, vissuto da individui fieramente risolti, dunque consapevoli del proprio essere, al contrario, Barbagallo mette in luce con inaspettata – e da noi desiderata – sincerità, il caos mentale ed emotivo che vede coinvolta sempre più la generazione Z, sospesa tra: “ti voglio ma non posso, vorrei capire chi sono io, prima di capire chi sei tu, scusa ma non sei tu chi stavo aspettando, mi piaci ma non mi comprendi, oppure non mi piaci proprio perché mi comprendi.” Echi di Troisi e Moretti silenziosamente serpeggiano nel sottotraccia e nella costruzione di Dario, o forse Barbagallo non gli è del tutto estraneo?
Dunque la bellezza e al tempo stesso l’inevitabile antipatia, nei confronti di chi pur consapevole d’essere irrisolto e perfino narcisista, oltreché nevrotico, paranoico ed inadeguato al sentimento, ricerca l’amore, generando illusioni e attese, senza tuttavia osservarle realmente, incurante e cieco delle conseguenze di tale atto. Filippo Barbagallo con il suo splendido esordio, invita lo spettatore a fare i conti con l’amore e con sé stesso, mostrando che il cinema sentimentale non è esclusivamente estetica fuori dai canoni, ragazza perfetta e ragazzo perfetto, ridicoli ostacoli ed antagonisti al loro pari, piuttosto inadeguatezze, incapacità d’amare, di provare ciò che qualcuno dall’altra parte sta provando, mettendocela tutta, pur trovandoci indifferenti, o peggio distanti. Ecco cosa realmente si può definire un ostacolo, la mancata osservazione di un amore bello, innocente e potenzialmente incredibile, poiché tutto ciò che si ha in mente è l’idea di un amore che non è mai avvenuto, dunque di un desiderio e di un’ipotesi remota, che forse mai accadrà.
Troppo Azzurro: valutazione e conclusione
Di esordi come questo c’è n’è uno ogni dieci o vent’anni. Il film di Barbagallo, come giustamente affermato dallo stesso, s’avvicina sorprendentemente ad una birretta fresca e leggera, che forse, in fin dei conti così leggera non è. Infatti, risulta e risulterà in seguito sempre più facile agli spettatori, identificarsi nelle dinamiche narrative e sentimentali del film, ritrovandosi o nell’incapacità fastidiosa, goffa e in preda all’ansia fanciullesca di Dario, o nella bellezza pura, innocente e profondamente amabile di Caterina, o ancora, nella ragazza oggetto del desiderio Lara, che tra voci leggendarie e fittizie ricostruzioni di vita, di sesso e amore, animate da ragazzi innamorati e mai corrisposti, mostra quanto frequentemente l’apparenza non faccia altro che ingannare, smontando con semplicità e altrettanta dolcezza, immaginari castelli di freddezza, apatia e manipolazione.
Che bello questo cinema puro, sincero e nostalgico che ci ricorda i nostri primi amori, quelli estivi perlopiù, in alcuni casi corrisposti fino in fondo, in altri soltanto a metà e forse proprio per questa ragione, così profondamente indimenticabili. I baci al chiaro di luna, le conversazioni nel cuore della notte all’interno di un’auto che silenziosamente prosegue lungo la sua strada, con un sottofondo musicale appena sussurrato, ma forte abbastanza da essere testimone d’un amore di lì a poco in procinto di sbocciare, oppure per niente, incessantemente sospeso tra sguardi e non detti, eppure è tutto lì, negli occhi, e come parlano quelli di Caterina, Dario e Lara, protagonisti del meraviglioso Troppo Azzurro.
Presentato in anteprima mondiale alla 18a edizione della Festa del Cinema di Roma, all’interno della sezione Freestyle, Troppo Azzurro è in sala dal 9 maggio, distribuzione a cura di Vision Distribution.