Troy: recensione di una grande occasione persa
La recensione di Troy, il film del 2004 per la regia di Wolfgang Petersen, vittima di vari problemi di produzione e una scrittura non proprio accurata.
Per chi nel 2004 fece la fila per vederlo, Troy di Wolfgang Petersen è quasi sempre vivo nella memoria come una delle più grosse delusioni cinematografiche del nuovo millennio.
Né potrebbe essere altrimenti, visto che il film, costato la bellezza di 175 milioni di dollari, con un cast pieno zeppo di star ed interpreti di grande caratura come non se ne vedevano da tempo, generò un hype assurdo, andato poi perduto in modo mesto alla fine dei 162 minuti di uno dei kolossal più deludenti di sempre.
Ma non poteva essere altrimenti, e a guardarlo oggi, a 16 anni dalla sua uscita, in un certo senso i segnali c’erano tutti, visto l’iter abbastanza sofferto in fase di produzione, riprese e post-produzione, i dissidi all’interno del cast, nonché l’incapacità di comprendere che un monumento all’intelletto umano come l’Iliade di Omero, meritasse un approccio quantomeno più fedele e rispettoso.
Invece Troy, nonostante alcuni elementi positivi, è ancora oggi tranquillamente definibile come il perfetto esempio di cosa NON fare quando si vuole creare un film epico, tratto da un testo così amato ed importante.
Troy: un Kolossal dalla genesi tormentata
Il cast di Troy fu definito dopo trattative estenuanti, con molti attori ed attrici che accettarono (o rifiutarono) all’ultimo, in più, durante la produzione, vi fu una pausa forzata dovuta ad un uragano che interruppe le riprese, numerosi incidenti sul set, in uno dei quali uno stuntman rimase ucciso.
Brad Pitt, Eric Bana, Orlando Bloom, Peter O’Toole, Brian Cox, Brendan Gleeson, Sean Benn, Garrett Hedlund furono i principali interpreti maschili, mentre Diane Kruger (al suo primo ruolo di rilievo), Julie Christie, Rose Byrne e Saffron Burrows quelli femminili.
Ma il clima, sul set, sovente fu a dir poco problematico, soprattutto a causa di O’Toole, perennemente ubriaco ed intrattabile.
Il risultato non piacque alla produzione, che basandosi su screen test parziali, licenziò il compositore Gabriel Yared e reclutò in fretta e furia James Horner, che in sole quattro settimane fu costretto ad improvvisare per creare un’altra colonna sonora, ben poco memorabile.
Il lavoro di Petersen fu più volte rimontato e rimaneggiato dalla produzione, che voleva qualcosa di “facilmente accessibile” ad un pubblico generalista.
Il risultato fu veramente deludente, soprattutto a causa del terribile lavoro di David Benioff (e di chi sennò?) alla sceneggiatura.
Come distruggere l’epica in 163 minuti
La produzione aveva insistito per fare un solo film (inizialmente si era pensato a due film ma poi l’idea era stata accantonata), e Benioff pensò bene di creare in soli 163 minuti una sintesi di tutti gli avvenimenti connessi alla guerra, che da decennale diventò una sorta di operazione lampo, un po’ come all’epoca negli Stati Uniti pensavano fosse andata nell’Iraq di Saddam.
A questo errore, Benioff ci aggiunse uno ancora più grave: rese Troy la classica storia del bene contro il male, dando sostanzialmente il primo ruolo ai troiani, ed il secondo a dei poco convinti greci, tiranneggiati da un Agamennone che Brian Cox rese una sorta di caricatura, rispetto al complesso personaggio che Omero aveva concepito.
Menelao diventò un vizioso e violento bullo, quando invece era uno dei personaggi più nobili e positivi del poema.
Il tutto altro non era che per certi versi ciò che si era già visto (purtroppo) nel 1956 con il bruttissimo e banale peplum Elena di Troia.
Ancora oggi tuttavia Benioff rivendica le sue scelte di allora, giustificandole con l’aver cercato di “far ciò che era più giusto per il film” piuttosto che essere fedele al poema.
Un approccio tanto arrogante e superficiale, produsse lo stravolgimento della figura di Patroclo (un imberbe Garrett Hedlund) e del suo bellissimo rapporto con Achille, banalizzandolo a quello di cugini e rendendo il personaggio banale e stupido.
Ancor peggio fu il tentativo di trasformare Paride (un Orlando Bloom insopportabile come poche altre volte) in personaggio positivo, quasi un anti-eroe romantico.
Brad Pitt ed il suo Achille: una grande interpretazione sprecata
Brad Pitt, ancora oggi, ricorda con fastidio la sua esperienza in Troy, l’atmosfera di banalità che si impadronì del progetto, di un regista che con Das Boot e Al Centro del Mirino aveva creato due grandissimi film.
“Era palesemente un’opera commerciale, si veda che ero stato viziato da David Fincher” disse più volte Pitt “ma da quel momento giurai di girare solo film di qualità, di non farmi più intrappolare in progetti di questo tipo“.
E dire che proprio Pitt, ci diede un Achille memorabile, fantastico, ferale ed insieme malinconico, tormentato dal desiderio dell’immortalità, e dal tarlo che forse una vita “normale” fosse ciò a cui aspirare. Perché Troy (ed è questo il paradosso) ha davvero momenti di grande cinema.
Le due battaglie, quella di fronte alla spiaggia e quella di fronte alle mura di Ilio, sono fantastiche, così come il duello tra Ettore ed Achille, o il dialogo tra quest’ultimo ed un Priamo a cui Peter O’Toole (a dispetto di tutto) donò regale grazia ed un’umanità struggente. Guarda caso, il momento più “fedele” al poema. Ma probabilmente Benioff manco se ne accorse.
La monumentalità della costruzione, i bellissimi costumi e scenografie di Bob Ringwood (nominato giustamente agli Oscar), un cast dalle grandi potenzialità… tutto questo andò sprecato in quel 2004, a causa della mancanza di ambizioni della produzione, di coraggio da parte del regista e di rispetto da parte di Benioff (chi ha visto il finale di Game of Thrones lo sa meglio di tutti), che ripeterono l’errore fatto nel 1956 da Robert Wise e recentemente da Netflix per Troy – La Caduta di Troia: prendere il più grande poema epico di tutti i tempi e farci una telenovela con gli steroidi.
E con buona pace di Florence Dupont e del suo provocatorio (ma brillante) Da Omero a Dallas, le due cose sono assolutamente inconciliabili.