Tutto in un giorno – Recensione del film di Juan Diego Botto
È nota ormai l’ambiguità, così come la scelta molto spesso poco funzionale delle traduzioni italiane rispetto a titoli cinematografici esteri. In qualche caso si tratta di una strategia perlopiù legata al marketing e alla promozione – scioccamente – accattivante del prodotto film, che altrimenti rischierebbe di apparire differente. In qualche altro caso invece la traduzione vorrebbe amplificarne ed evidenziarne il contenuto, come a voler accompagnare il pubblico ad una semplificata comprensione di ciò che vedrà in seguito. Non tutte le traduzioni italiane hanno giovato alla fama e alla promozione di un film, escluse rarissime eccezioni. Nel caso dell’esordio alla regia di Juan Diego Botto, Tutto in un giorno, si ha la conferma di quanto a volte – e sempre più spesso – i titoli nostrani possano privare di contenuto e simbolismo un film estero che a partire dal titolo vorrebbe comunicare molto direttamente con lo spettatore. Ecco dunque la distanza tematica chiarissima e immediata tra: Tutto in un giorno e En los márgenes.
Titoli che dialogano con il contenuto ed altri che non lo fanno: En los márgenes diventa in italiano Tutto in un giorno e
Se è vero che la narrazione del film si sviluppa nell’arco di una singola giornata e poi di un frammento di mattinata, è altrettanto vero che Juan Diego Botto non risulta affatto interessato ad un racconto convenzionale di persone comuni, classi sociali differenti e così via, al contrario, pone al centro del suo film esclusivamente gli emarginati, i disperati, coloro che corrono, rischiano, piangono e crollano, fino a non rialzarsi più e che lottano ogni giorno affinché vengano riconosciuti loro i giusti diritti, o più semplicemente salari minimi, pasti sufficienti da sfamarli senza costringerli al furto e la garanzia di un tetto sopra la testa. Quattro condizioni apparentemente basilari, eppure nevralgiche e mancanti all’interno della società che il film di Diego Botto racconta e denuncia.
Il cinema di denuncia sociale di Juan Diego Botto – Le condizioni irrisolvibili di una Spagna disumana
Servendosi infatti di un intricato, tensivo, tragico e apparentemente casuale puzzle fatto di adrenalinici intrecci e logoranti questioni di ordine giuridico, economico o più in generale burocratico, il film di Diego Botto si fa strumento di denuncia, ispirandosi a quel modello di cinema socialmente e politicamente impegnato che vede tra i suoi attuali protagonisti, autori anche molto differenti tra loro come Ken Loach, Mathieu Kassovitz, Gus Van Sant, Stephen Daldry, Stephen Frears, Romain Gavras e Sean Baker, così come i nostrani Antonio Morabito e Francesco Ghiaccio (tra gli altri).
La realtà che l’esordio di Diego Botto racconta e denuncia è quella dell’indebitamento bancario e dello sfratto che in Spagna nel corso degli anni ha raggiunto una dimensione preoccupante a tal punto da sollevare quotidiane e sanguinose rivolte popolari, con conseguente e incontrollabile affollamento delle mense dei poveri e dei rifugi per i senza tetto, divenuti via via più pericolosi, inadeguati e insufficienti rispetto alle esigenze di individui fragili, nuclei familiari e così via.
Per non parlare del tasso dei suicidi, in costante aumento, così come quello della criminalità, per via dei furti, delle rapine e degli omicidi, una crescita graduale inevitabilmente generata da una rabbia popolare che l’ordinamento spagnolo non fa altro che nutrire ed aumentare, limitando al minimo – se non evitando del tutto – concessioni, patteggiamenti e proroghe che nella maggior parte dei casi sarebbero sufficienti ad appianare condizioni all’apparenza gravi e irrisolvibili, riportandole invece all’ordine e alla calma.
Non c’è calma nel film di Diego Botto, piuttosto collera, frustrazione, nervosismo, corsa forsennata, distruzione emotiva e crisi.
Tre destini, tre lotte – Coralità, squilibrio e linguaggio registico
Il modello narrativo a cui Diego Botto sembrerebbe guardare con più immediatezza è quello corale e ad intrecci di Paul Haggis, nello specifico a due titoli del notissimo autore canadese quali Crash – Contatto fisico e Third Person, la cui struttura prevedeva la presentazione di drammatici destini e accadimenti inizialmente estranei tra loro e solo in un secondo momento rivelati come consequenziali e dipendenti gli uni, dagli altri, accaduti nell’arco di pochissime ore, di una singola giornata, oppure poco più.
La stessa dinamica e struttura è in qualche modo l’anima del film di Diego Botto, che nella sua ferrea e attenta, seppur in più di un momento squilibrata, volontà di legare tra loro tre differenti destini – quello di Azucena, una donna (interpretata da una mostruosamente solida, rabbiosa eppure fragilissima Penélope Cruz) che non sa più cosa fare per non perdere la propria casa, nella quale vive con figlio e marito (interpretato dallo stesso Juan Diego Botto), quello di Rafa (interpretato da un sempre più disperato eppure emotivo Luis Tosar), un avvocato attivista che non riuscendo a dividersi tra vita privata e lavoro, finisce per non riuscire in nessuno dei due, e quello di Teodora, un’anziana madre perseguitata dall’incombente dramma dello sfratto e dai sensi di colpa rispetto ad un turbolento e perduto legame con il figlio German – gioca coi generi, rendendo il film un’opera ibrida e contaminata, che è tanto dramma, quanto thriller, non per via di una dinamica action, bensì per i ritmi, continuamente tensivi, dinamici, forsennati, ansiogeni e in nessun caso consolatori che se intrattengono e commuovono, risultano squilibrati all’evolversi delle vicende secondarie.
Una vera e propria corsa contro il tempo che se funziona perfettamente nei segmenti della Cruz, mai stata così feroce, drammatica e disperata, o di Tosar, che vira invece verso il thriller, vestendo i panni di un avvocato che appare più come un detective da puro e duro cinema hardboiled, perciò dolente, nervoso, instancabile e mai rassegnato, è negli altri segmenti e frammenti di narrazione che l’esordio di Diego Botto perde di mordente, ritmo e tono, conducendolo sempre più ad una condizione inevitabile di squilibrio tra le parti, un po’ per questioni di minutaggio, un po’ per questioni di scala d’importanza tematica, rendendo il film un’opera contaminata riuscita soltanto a metà.
Ad ogni modo, Tutto in un giorno è un esordio interessante, considerando soprattutto il linguaggio e discorso registico che non produce o crea distacco tra la macchina da presa, il contesto in cui si muove e gli individui che racconta, come molto spesso accade invece nel cinema dell’oggi e non solo, restando estremamente vicino ai corpi e ai volti, come a voler indicare, comunicare e sottolineare una condizione eterna di invasione e ingresso violento da parte di forze altre – ed esterne – nella vita degli individui. Lo spettatore si ritrova infatti a vivere questa condizione, subendola e perpetrandola al tempo stesso, perciò consapevole di una fragilità umana capace di produrre gesti ed emozioni contrastanti, inarrestabili e sorprendenti.
Un peccato che la narrazione appaia squilibrata, eppure interessante. Juan Diego Botto è un autore a cui certamente guarderemo.
Presentato in anteprima mondiale al Festival di Venezia 2022, nella sezione Orizzonti, candidato a cinque premi Goya e distribuito da BIM, Tutto in un giorno, approda nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 2 Marzo 2023.