Venezia 77: Tvano nebus – The Flood Won’t Come, recensione
La guerra raccontata in modo intimista. Tvano Nebus - The Flood won't come è un film in concorso alla Settimana della Critica 2020.
Tvano Nebus – The Flood won’t come è un film lituano inserito nel concorso della Settimana Internazionale della Critica durante il Festival del cinema di Venezia 2020. Il film di Marat Sargsyan, regista di origini armene che dirige i suoi film in Lituania, offre una personalissima riflessione sulla guerra. In particolare il film attraverso il suo protagonista, un gendarme “vecchio stampo”, racconta la vita dei soldati in guerra, le strategie di potere che ci sono dietro in modo, la disperazione dei civili e l’attesa infinita dei prigionieri in modo intimista.
La guerra è preparazione: la strategia si controlla, le emozioni no
Un bellissimo piano sequenza tra le montagne ad alta quota dà inizio a Tvano Nebus – The Flood won’t come che denuncia fin da subito uno dei grandi orrori della storia mondiale, le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Il film prosegue informando semplicemente che è comunicata una nuova guerra, servono uomini, armi, cibo, alleati. Soprattutto è necessario capire dove si svolgerà questa nuova guerra che mette gli uni contro gli altri, popolazioni che si odiano e che vorrebbero risolvere tutto con la violenza. C’è bisogno di un luogo, di un paese in cui sganciare le bombe. A tutto questo deve badare il protagonista del film, un colonnello datato che in passato ha provocato guerre su ordine, in più occasioni in diversi paesi. Ora i suoi seguaci sono cresciuti e hanno causato una guerra nel suo paese. Non vorrebbe combattere questa guerra, ma visto che è costretto almeno vorrebbe combatterla mantenendo salda l’etica. Il colonnello percepisce che il suo tramonto militare è ormai al calare e non vorrebbe altro che riposare, semplicemente prendere un autobus e tornare a casa dalla propria famiglia.
Tvano Nebus svela l’altra faccia della medaglia bellica
Non c’è niente di spettacolare, la guerra di Tvano Nebus viene raccontata senza esplosioni e azione. La violenza però è presente e feroce: da un lato i soldati costretti a misurarsi con delle indicibili atrocità, dall’altra i prigionieri abbandonati a loro stessi e con l’unico appiglio alla fantasia attendono il loro destino. Il regista Marat Sargsyan cerca la strada della riflessione attraversando metafore della religione, dal titolo che allude ad un diluvio universale punitivo che non verrà e che sta a significare l’assenza di un Dio, sia nella discussione che i prigionieri intessono nel loro bunker in cui dicotomicamente si contrappongono la ragione e l’atto di fede. Un racconto contenuto a tratti intimista che svela le assurdità dei conflitti bellici.
Sguardo autoriale e ambientazione naturalistica
Il ritmo del film è cadenzato e la regia naturalistica è d’impatto. Il film sfrutta anche la tecnologia militare per raccontare questa storia senza tempo e senza luogo, con immagini di droni dall’alto e in infrarossi, ma così drammaticamente familiare. Siamo in un mondo in cui le guerre, le esplosioni, gli atti terroristici attraversano la nostra quotidianità con i reportage televisivi e i servizi dei telegiornali, ma chi per fortuna vive queste tragedie filtrate attraverso uno schermo poco o mai riflette su cosa c’è dietro le guerre così lontane da noi. Tvano Nebus – The Flood won’t come prova, centrando l’obiettivo a tratti, a raccontare una delle cose più antiche senza eroi e senza cattivi, ma solo con anime perse.