Un giorno di ordinaria follia: recensione del film con Michael Douglas
Un giorno di ordinaria follia: un cult da scoprire e riscoprire. Ecco la nostra recensione del film con protagonista Michael Douglas.
Esattamente 25 anni fa vedeva la luce Un giorno di ordinaria follia, cult diretto da Joel Schumacher e con protagonisti Michael Douglas e Robert Duvall. Un film ancora oggi più attuale che mai, che mette in scena la personale discesa agli inferi di un uomo apparentemente tranquillo e rispettabile, portato oltre il limite della propria sopportazione dai suoi fallimenti, dalla sfortuna e da una società sempre più egoista e alienante, fino a sfociare in un vortice di follia e violenza. Una pellicola che ha inoltre fotografato brillantemente le crescenti tensioni sociali della Los Angeles dei primi anni ’90, ispirando inoltre il lavori di celeberrime band come gli Iron Maiden (per Man on the Edge) e i Foo Fighters (per il video di Walk).
William Foster (Michael Douglas) è un uomo sulla quarantina, afflitto da una serie di avvenimenti che lo hanno portato a perdere il lavoro e la moglie e a vedere praticamente azzerato il tempo a disposizione per vedere la figlia. Profondamente irritato dal traffico di una torrida Los Angeles, l’uomo abbandona la sua auto (targata emblematicamente D-Fens) e si dirige verso la città, trovando però sulla propria strada una serie di personaggi e situazioni che gli fanno definitivamente perdere il controllo, liberando tutta la sua rabbia repressa. Il suo destino si incrocia con quello del Sergente Martin Prendergast (Robert Duvall), al suo ultimo giorno di lavoro prima del pensionamento e dopo una carriera che lo ha visto lasciare progressivamente il servizio sulla strada per preferire un incarico da ufficio, in modo da salvaguardare la propria incolumità e non fare stare troppo in pensiero la moglie.
Oltrepassare il punto di non ritorno: Un giorno di ordinaria follia
Come 8½ o il successivo e recente La La Land, Un giorno di ordinaria follia si apre con una persona imbottigliata nel più caotico e insopportabile traffico, simbolo dell’opprimente pressione della società sui singoli individui ed escamotage per un’evasione da tutto ciò che ci appesantisce e ci provoca stress. A differenza del capolavoro di Federico Fellini, in cui la fuga è prevalentemente interiore ed esaltata dalle atmosfere oniriche del cineasta romagnolo, o dell’acclamato film di Damien Chazelle, sublime nella raffigurazione di Los Angeles come teatro di sogni e aspettative, successi e fallimenti e amori e separazioni, la Città degli angeli rappresentata in Un giorno di ordinaria follia, pur con il suo incancellabile fascino, è estremamente più cupa e inquietante, non lontana da quella distopica metropoli magistralmente fotografata da John Carpenter nel suo dispotico Essi vivono.
Sono io il cattivo?, si chiede amaramente William Foster (alias D-Fens) in una delle scene cardine del film, sintetizzando il suo punto di vista sulla vicenda e il senso dell’intera pellicola. William non è una cattiva persona, o almeno non lo è nell’accezione più comune del termine. William è un uomo indelebilmente segnato dal dolore, dalla perdita degli affetti e da una società che sempre respingerlo continuamente, bollandolo come obsoleto o troppo acculturato per un mercato del lavoro sempre più in cerca di uomini macchina e soldatini ligi al dovere.
Un giorno di ordinaria follia fotografa magistralmente la crescente tensione sociale della fine dell’era di Bush Sr.
D-Fens è prima di tutto vittima dei propri errori e della propria fragilità, ma anche e soprattutto di una società sempre più rigida e disumanizzata, dove le richieste di un cambio di pochi spicci per telefonare o di una colazione 5 minuti fuori orario diventano ostacoli insormontabili e in cui è sciaguratamente normale imbattersi in un negoziante neo nazista o in una gang intenzionata a difendere il proprio territorio anche con la violenza. Accade così che, in una giungla urbana ben lontana dall’immagine incantata e sognante tramandata da Hollywood, un uomo comune e anonimo perda completamente il controllo, cominciando a seminare il panico nella città a colpi di mazza da baseball, mitra e bazooka. Una cieca e irrefrenabile brutalità, che si abbatte su ignari e incolpevoli passanti, innescata dall’esasperazione e alimentata dalle grottesche situazioni in cui viene a trovarsi D-Fens, capaci di tirare fuori i suoi istinti più reconditi e incontrollabili.
Joel Schumacher fotografa perfettamente la fine dell’era di Bush Senior e più in generale la conclusione di un ciclo repubblicano durato ben 12 anni, soffermandosi in maniera pungente ed efficace sui tanti strascichi lasciati, dalla crescente disparità e ingiustizia sociale a un’immotivata paura dello straniero e del diverso, passando per una totale sfiducia nel futuro e una retrograda smania di ritorno al passato. In questo senso, Un giorno di ordinaria follia sa essere anche lucido ed estremamente attuale film politico, superando le divisioni di schieramento e mettendo in luce diversi aspetti di una visione prettamente reazionaria, con le stereotipate ma efficaci rappresentazioni di coreani e gang criminali, ma anche con l’agghiacciante ritratto di un negoziante neo nazista, addirittura affascinato dal folle viaggio di D-Fens e dalla sua paradossale guerra contro il sistema.
D-Fens e il Sergente Prendergast: le due facce della stessa medaglia di Un giorno di ordinaria follia
A dare respiro e profondità al racconto è l’emblematica figura del Sergente Prendergast, ben interpretato da un misurato e allo stesso tempo appassionato Robert Duvall: un uomo di legge ligio al proprio dovere e alle proprie responsabilità, ma costretto a rinunciare al suo amato lavoro e alla sua vitalità per compiacere la moglie, sempre più bisognosa delle sua attenzioni e della sua compagnia. L’uomo diventa così l’altra faccia della medaglia rispetto a D-Fens, compresso da dolori e ingiustizie simili, accompagnato alla porta da fintamente interessati colleghi, ma fermamente intenzionato a mandare giù tutti i bocconi amari e a rispettare il proprio ruolo e il proprio compito fino all’ultimo istante.
Fra i due si instaura così un controverso rapporto, prima a distanza e poi fisico, fatto di tensione ma anche di reciproca comprensione, alimentata dalla comune insoddisfazione per le loro esistenze. Mentre D-Fens oltrepassa il cosiddetto punto di non ritorno, in un crescendo di violenza esaltato dalla regia di Schumacher e dalle musiche di James Newton Howard, Prendergast sfoga a suo modo il proprio istinto, scegliendo di abbandonare la sua autoimposta remissività e di cercare l’ultima eroica impresa sul campo, confrontandosi con un avversario estremamente pericoloso e in parta anche con se stesso.
Un giorno di ordinaria follia: un cult da scoprire e riscoprire
Lo splendido confronto finale è il perfetto epilogo di una storia dai contorni tragici e dai toni costantemente sopra le righe, capace di ricordarci che dentro ognuno di noi alberga una bestia feroce e incontrollabile, pronta a riaffiorare e a deflagrare violentemente nelle circostanze più imprevedibili. Una dolorosa e crudele Odissea urbana, tragicamente attuale in un periodo fatto di crescente tensione sociale, di scollamento e sfiducia verso le istituzioni e di una sempre maggiore frequenza di episodi di violenta follia da parte di uomini comuni. Un cult da scoprire e riscoprire, per comprendere e riflettere sugli anfratti più inquietanti e nascosti dell’animo umano.