Un sacchetto di biglie: recensione del film di Christian Duguay
Un sacchetto di biglie di Christian Duguay è la storia vera di due bambini ebrei francesi e del loro viaggio a piedi attraverso la Francia per sfuggire ai nazisti.
Ci sono tante prospettive per raccontare un avvenimento cruciale per l’umanità intera come l’olocausto. Christian Duguay, regista e co-sceneggiatore di Un sacchetto di biglie, ha deciso di adottarne una fanciullesca e forse ingenua, ma non per questo scarna di significato.
D’altro canto, il best seller omonimo da cui è tratto il film, scritto da Joseph Joffo che è anche il vero protagonista della storia, racconta l’epopea di una famiglia ebrea francese, ma soprattutto di due bambini (Joffo appunto e suo fratello maggiore), costretti ad attraversare la Francia a piedi per sfuggire alla persecuzione tedesca.
Il regista di Un sacchetto di biglie ha voluto dare spazio al “cuore nascosto” del film: la figura del padre
Il regista, dopo essersi a lungo confrontato con Joffo, ha dichiarato di aver capito due cose fondamentali che infatti sarebbero poi diventate le basi del film: la prima è che avrebbe dato maggiore spazio al cuore nascosto del libro, la figura del padre; la seconda è che quella narrata era una “storia così forte, ma soprattutto così sfortunatamente universale, che è impossibile non vederci l’attualità, la sofferenza, e sì, a volte i momenti di felicità delle popolazioni che si spostano oggi nel mondo” (Christian Duguay).
E in effetti è evidente che su Roman, il padre, sia stato fatto un lavoro particolarmente attento, che lo rende il personaggio che è sempre un passo avanti rispetto a tutti: è lui che capisce anzitempo che i figli sarebbero dovuti scappare, è lui che con fermezza ma amore li istruisce al durissimo viaggio che dovranno affrontare ed è a lui che evidentemente ogni componente della famiglia Joffo (quattro maschi) guarda come esempio di rettitudine. Inizialmente Joseph Joffo, che ha supervisionato tutto il film, non era molto d’accordo con la scelta di Patrick Bruel per quel ruolo, ma in corso d’opera si è detto perfettamente convinto di come il poliedrico attore francese (anche cantante e giocatore di poker professionista) avesse dato vita a suo padre.
La più piacevole sorpresa del film rimane però Dorian Le Clech, il dodicenne protagonista che sa tenere la scena con un’intensità da attore navigato, aiutato dal diciottenne Batyste Fleurial Palmieri, che nella pellicola interpreta il fratello maggiore Maurice, con il quale Joseph intraprende il viaggio. Il rapporto tra i due ragazzi, viscerale nella vera storia dei fratelli, è stato evidentemente solido anche sul set, perché i due attori hanno un modo di relazionarsi così autentico, soprattutto da un punto di vista fisico, che sembra di assistere a due fratelli veri e propri.
È invece difficile rintracciare in questo film quegli spunti universali che il regista avrebbe voluto ottenere. La possibilità di raccontare quello che è successo ieri per parlare anche di oggi è infatti limitata da uno stile molto tradizionale di racconto: Un sacchetto di biglie non aggiunge niente a quanto si è già visto o letto riguardo alla Shoah, perché sceglie di incanalarsi in quei binari sicuri di racconto già ampiamente solcati. E questo è un peccato, perché l’Olocausto è un argomento sempre denso di significato, che merita approcci che non lo banalizzino (seppur in buona fede).
La linearità del racconto e l’assenza di guizzi registici rende Un sacchetto di biglie un film adatto esclusivamente a un pubblico di bambini.
Un’opera a scopo divulgativo che si accontenta di stare nel suo, facendolo anche bene, ma che con un po’ di coraggio e inventiva in più avrebbe potuto essere accattivante per un pubblico molto più ampio.