Una terapia di gruppo: recensione del film di Paolo Costella
Una terapia di gruppo, regia di Paolo Costella, è un film in equilibrio tra risate e malinconia per parlarci di salute mentale, solitudine e condivisione. Cast pregevole, con Claudio Bisio, Claudio Santamaria, Margherita Buy e non solo.
Non è un originale italiano, Una terapia di gruppo, anche se non si direbbe. Il film, regia di Paolo Costella e nelle sale italiane dal 21 novembre 2024 per Warner Bros. Entertainment Italia, è la rielaborazione di un testo teatrale francese – “Toc Toc” di Laurent Baffie – del successivo adattamento di Juliàn Quintanilla e dell’omonimo film spagnolo del 2017 diretto da Vicente Villanueva. Spiegano, i realizzatori, che delle tante influenze che hanno nutrito il film quella decisiva è stata il testo francese. Una terapia di gruppo è un film ostinatamente italiano (qui l’intervista al cast), nello sguardo di autoironica comprensione per le debolezze dei suoi perfettamente imperfetti protagonisti e per la commistione, tanto cara alla filosofia della nostra commedia di costume, di dramma e commedia. Si ride con i protagonisti, non dei protagonisti. Ritmi indiavolati, claustrofobia – per due ore sono in sei, sei più uno, chiusi in una stanza – e un cast niente male: Claudio Bisio, Margherita Buy, Claudio Santamaria, Valentina Lodovini, Lucia Mascino, Leo Gassmann e Ludovica Francesconi. La parola chiave, per capire i personaggi e il lavoro degli attori, è DOC.
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Una terapia di gruppo: sei più una, chiusi in una stanza a lavorare sui propri problemi
DOC, altrimenti noto come Disturbo Ossessivo Compulsivo. Sono in sei, il più uno è Sonia, la segretaria, (Lucia Mascino), finiti per uno strano inconveniente, chissà quanto casuale, chissà quanto provvidenziale, a condividere lo stesso orario e la stessa seduta nello studio del dottor Stern, illustre psicoterapeuta. Federico (Claudio Bisio) ha la sindrome di Tourette e non ha nessun controllo del suo vocabolario e della sua gestualità, con esiti prevedibili. Emilio (Claudio Santamaria) ha un buon carattere ma è afflitto da una pesante aritmomania, l’ossessione di contare le cose, che gli ha sconvolto la vita. Annamaria (Margherita Buy) è una maniaca del controllo in piena negazione della realtà. Otto (Leo Gassmann) vive attaccato al cellulare perché ha paura di essere tagliato fuori da tutto. Lilli (Ludovica Francesconi) è fissata con la simmetria al punto da ripetere tutto due volte. E poi c’è Bianca (Valentina Lodovini), ossessionata dalla pulizia e refrattaria al contatto.
Paolo Costella, che dirige Una terapia di gruppo su sceneggiatura di Michele Abatantuono e Lara Prando, è molto scrupoloso nel delimitare perimetro e specificità dei disturbi. La storia si muove sul piano di un riconoscimento empatico e maturo: malati siamo noi, ma non malati, piuttosto umani, imperfetti, vivi. I disturbi dei sei, aggiungendo i toni logorroici e nevrotici della segretaria, sono uno specchio accurato di fragilità, bisogni e ossessioni universalmente condivisi. A un livello di enorme esasperazione si parla di DOC, di salute mentale, ma il film va oltre la cortina dei pregiudizi e delle semplificazioni per ricordarci che la paura di restare soli e il bisogno di controllare la vita sono ansie che appartengono a ciascuno di noi. Una narrazione lineare: sei pazienti, una segretaria e il dottore che non c’è. Il dottor Stern, il grande luminare, l’ancora, la guida, il padre mitico e l’unica possibilità di farcela, è sparito. Prima però, ha avuto “l’accortezza” di sistemare i sei pazienti nella stessa sessione di terapia, allo stesso orario.
Ognuno è convinto di essere nel giusto e che gli usurpatori siano gli altri. Ognuno è convinto che il suo disturbo venga prima degli altri. Potrebbero andarsene, ma non lo fanno. Nella claustrofobica intimità dello studio, insieme alla segretaria che in teoria è sana ma ha forse bisogno d’aiuto come e più degli altri, provano a salvarsi da soli. Inscenano, in un clima di autogestione studentesca, un’assurda, caotica e rivelatoria sessione di terapia di gruppo. Riconoscere le debolezze in sé e negli altri, accettarle e lavorarci sopra, staccandosi dal proprio ego e riscoprendo il senso caloroso di concetti come solidarietà e condivisione: Una terapia di gruppo sceglie per sé un appeal moderno e temi universali.
Raccontare un problema, ridendoci sopra
Il gioco di Una terapia di gruppo è antico e moderno. Antico, perché l’alchimia di commedia e malinconia è l’abc del nostro modo di ridere, al cinema; se nel caso della commedia all’italiana il mix di toni andava nella direzione della commedia di costume, qui è l’introspezione psicologica a prevalere. La modernità del film è l’attenzione riservata alla salute mentale. Un problema universale, a lungo nascosto sotto il tappeto di un negazionismo diffuso: parlarne il meno possibile, negare sempre. Il mondo che cambia rivede le sue priorità e va apprezzato il coraggio di Paolo Costella che lavora sul tema prendendosi un rischio enorme, peraltro in un’epoca di suscettibilità generalizzata: raccontare un problema serio, ridendoci sopra. La chiave di volta di Una terapia di gruppo è il sottile equilibrio tra risata, rispetto, empatia e malizia.
Il film fatica, nella prima metà, a trovare i giri giusti e una quadra soddisfacente tra la deformazione comica della patologia e il suo racconto onesto. Riesce a strutturarsi meglio, nella seconda, grazie al buon ritmo della storia e a un’intuizione intelligente, coinvolgendo personaggi e pubblico in un abbraccio condiviso e liberatorio – i sei estremizzano manie e ossessioni che, a piccole dosi, sono di tutti – e lasciando agli interpreti il compito di arricchire la storia, oltre il controllo registico e di scrittura, con il guizzo di una creatività che scardina le convenzioni. Del cast pregevole e affollato, oltre la verve elettrica e sapiente di Claudio Bisio, vanno segnalate le fragilità molto complesse e interessanti di Valentina Lodovini e Ludovica Francesconi. Sono le caratterizzazioni più efficaci, per l’abilità delle interpreti di restituire lo spessore di un disturbo non autoctono, ma indotto dall’ingiustizia del mondo.
Una terapia di gruppo, interessante esercizio di cinema claustrofobico e comico, ci mette un po’ a arrivare al nocciolo della questione, sarebbe a dire la paura di perdere il controllo che scatena l’incendio del DOC, esasperato dalla vergogna e dalla paura di restar soli. La ricetta per andare avanti è accettare se stessi e chi ci sta intorno, aprirsi alle ragioni altrui, vivere insieme; un nobile e condivisibile intento che forse spegne un po’ l’energia del film. La storia ha il merito di raggiungere un dignitoso equilibrio tra drammatizzazione ironica di un fenomeno e la cronaca rispettosa, al prezzo di frenare l’umorismo anche oltre il necessario, cercando a tutti i costi un raggio di luce sul finale quando un’ambiguità più marcata non avrebbe guastato.
Una terapia di gruppo: valutazione e conclusione
Una terapia di gruppo è soprattutto l’affiatamento e il brio, in equilibrio tra umorismo e malinconia, di un cast notevole – funzionano tutti, e bene – che sa giocare con la psiche complicata dei personaggi senza svilirne i disturbi e senza mai mancare di rispetto (all’individuo che presenta il disturbo e al disturbo). Se il mix di commedia e malinconia è lucidamente costruito, l’impressione di un umorismo molto controllato e di un finale conciliante anche oltre il necessario, senza nascondere i meriti del film diretto da Paolo Costella, doppiamente coraggioso – per il tema e per come lo racconta – lascia il retrogusto di un’occasione colta volutamente a metà.