Una vita in fuga: recensione del film di Sean Penn

Il ritorno di Sean Penn alla regia è un triste reiterarsi di tematiche a stelle e strisce incapaci di superare un'autocritica già vista

Una vita in fuga (Flag Day) arriva nelle sale italiane mentre Sean Penn, qui protagonista e regista, lascia a piedi l’Ucraina. Si parla molto di lui, in questi giorni. Solo poche settimane fa avevamo goduto dell’attore nell’istrionica parte affidatagli da Paul Thomas Anderson in Licorice Pizza, dove con una moto saltava una fossa in fiamme cadendo e rialzandosi come nulla fosse. In tutto questo, è il suo nuovo film, il sesto da regista, a lasciare più indifferenti.

Una vita in fuga non aveva stupito a Cannes, dove timide e dispiaciute recensioni ne avevano ricavato una fanfara confusa di terminologie già pronunciate dal cinema americano. La storia è tratta da Flim-Flam Man: The True Story Of My Father’s Counterfeit Life di Jennifer Vogel. Un’autobiografia sofferta che da vicende personali trae il ritratto di un paese attraverso mezzo secolo. Nel ruolo della Vogel troviamo, in un bel gioco di diegesi, la figlia di Penn, Dylan. Una buona prima prova in un mediocre sesto film. C’è anche il fratello, Hopper Jack Penn. Colpe e doni dei padri: proprio ciò di cui si parla in Una vita in fuga, che su un testo citato pedissequamente ricama forme, montaggi, sonorità insistite e ammantate in uno splendido 16mm al servizio di un film che scorre via senza incastrare mai un’idea incisiva.

Una vita in fuga, nati sotto il segno della bandiera

Quello dell’America incarnata nei vizi e nelle vite di furfanti e outlaw è un genere a parte. Molto si deve alla newhollywood, che negli anni ’70 ha squarciato le falsità dei teatri di posa aprendosi ai cieli della libertà individuale in contrasto con i dettami di una società stretta alla vita dei cittadini. Non stupisce che le nuvole di Una vita in fuga ricordino le Badlands di Malick, ma lascia attoniti non trovarci molto più di un calco.

Into the Wild di Sean Penn usciva dalla società, cercando nell’asse uomo-natura l’alternativa possibile. Una vita in fuga resta nelle città, non scappa dalla bandiera e in essa dà vita al protagonista, che nato nel flag day obbliga a vedere in ogni sua azione – anche e soprattutto le più meschine – un’incarnazione di quell’America del self-made man svelata con realismo pessimista. “Mio padre diceva che il Flag Day era l’America che festeggiava la sua nascita”. Sono le parole della figlia, Jennifer, ad accompagnare un film stretto tra due morse: la rigida conduzione cronologica che attraversa mezzo secolo – dagli anni ’70 della newhollywood fino al ’92 – e la volontà di Penn di trovare l’immagine perfetta che riassumi un’esistenza e un paese. L’insieme è fragile e incostante.

Le immagini bagnate di una grana spessa hanno il sapore degli Home Movies, anche grazie all’affascinante 16mm scelto da Penn per seguire questa storia. Sono gli occhi della figlia puntati sulla famiglia, scoperta nelle sue macchie indelebili e poi vissuta in uno strenuo tentativo di salvataggio.

John Vogel è un uomo della fortuna. Improvvisa la vita. Di trucco in imbroglio, sterza sulle vie traverse sino all’ultima imboccata. Può cambiare un uomo così? Ce lo chiediamo spesso osservando Una vita in fuga, affascinanti da questo “principe” di una favola infantile che si rivela solo un piccolo uomo a cui la figlia vuole salvare l’anima. Il rapporto tra i due è vivace ma perde energia dopo il primo atto, quando lei prende il posto di una moglie e fa il possibile per cambiare un destino che Sean Penn ci ha già rivelato essere tragico.

Il montaggio con le canzoni originali di Eddie Vedder – richiamato da Penn dopo la proficua collaborazione in Into the Wild – alterna vasti paesaggi e ricordi. L’America del grano con un’anima country si realizza in un grande stereotipo di fatto, che non si allontana dalla tradizione e cede il passo a un film giocato su automatismi e facili trucchi. Una vita in fuga assomiglia al suo protagonista, e infatti non si redime. Siamo la figlia, in attesa di una rivalsa che non arriverà. Lo sguardo sociale di Penn è di un nichilismo perduto. Lei sopravvive al padre, ma non abbandona il fascino per quel bonario furfante che l’ha cresciuta in un paese avvelenato. “È bellissima”, commenterà osservano una dei cinquanta milioni di dollari falsi stampati in gran segreto dal padre. In apparente sotto traccia, ma invero ripetuto e cercato con insistenza, scorrono le crepe di una società vissuta nella contraddizione: quando lei diventa giornalista si dedica a un reportage sugli scarichi industriali immessi nell’acqua potabile. Una vicenda tristemente ricorrente negli USA, dove solo qualche anno fa scoppiò l’ennesimo scandalo nella città di Flint.

Cinema logorroico e muto

“L’atmosfera? L’atmosfera deve restare classica”. John Vogel pronuncia parole che ci parlano del film. Non ci allontaniamo da una narrativa statunitense che frusta e denuncia ciò che oggi è lapalissiano e dunque non smuove. Questi personaggi sono talmente perfetti nell’incarnare una condizione da smettere di esistere e diventare mitologia di plastica.

Le vicende reali raccontate da Jennifer Vogel perdono di attinenza quando Sean Penn decide di esasperare il racconto, di urlare un’umanità condannata a un pubblico che Una vita in fuga sembra sottostimare. Ci piace l’umanità di questi personaggi. E un po’ vorremmo credere che John Vogel verrà salvato dalla figlia, invece che messo al rogo come spesso oggi avviene in un confronto generazionale tossico e impossibile. La scrittura vorrebbe usare i cliché per tracciare un percorso, ma si trova usata da quelle forme che la incastrano in un film che dice tantissimo ma parla davvero poco. Una vita in fuga è una bella posa, come certo cinema dell’ultimo Eastwood, che però ha il pregio di risultare quantomeno sentito dal suo interprete e regista. Il risultato è qui invece vignettistico, più espressionista che espressivo. Ogni azione non viene mai da sé e Penn cerca troppi modi per incorniciare una vicenda reale restituita con un pathos ingannevole, retto da zoom continui (firma del regista qui sacrificata al nulla), svolte di montaggio e tappeti sonori che attutiscono la caduta degli eventi impedendo a quello stesso pathos di deflagrare oltre lo schermo. Il peggio che potesse accadere a un cinema di denuncia e vocazione umanista: diventare una scelta estetica che non sostanzia mai un rapporto con il reale.
Una vita in fuga è al cinema dal 31 marzo 2022 con Lucky Red.

Regia - 2
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione - 2
Sonoro - 2
Emozione - 3

2.3