Une saison en France: recensione
Una grande apertura per la 28a edizione del Festival del Cinema Africano d'Asia e America Latina con un dramma intenso e intimo del regista Mahamat Saleh Haroun
Con Une saison en France, primo film ambientato in Francia, Mahamat Saleh Haroun affronta un tema che mai come adesso è attuale anche nel nostro paese; la condizione dei richiedenti asilo. E lo fa con un film duro e delicato allo stesso tempo, che alterna in modo estremamente realistico momenti di profondo dramma a momenti di quotidiano, i quali lasciano in bocca l’amaro dell’illusione di una potenziale serenità.
Une saison en France un cast di interpreti straordinari
Abbas (Eriq Ebouaney, interprete in molti film internazionali come Femme Fatale di Palma o Hitman) è riuscito a fuggire dal Chad con i suoi due figli e a trovare temporaneo rifugio a Parigi. In attesa di ottenere asilo politico Abbas, che nella precedente vita era un professore di Francese, è riuscito a costruirsi un’esistenza relativamente serena. Lavora al mercato, dove probabilmente ha conosciuto il suo nuovo amore Carole (Sandrine Bonnaire, recente performance nell’ultimo film di Lelouch Parliamo delle mie donne), deve cambiare alloggio di frequente ma riesce a mandare i suoi due bambini a scuola. Sprazi di serenità rotti dalla preoccupazione per il futuro e dai dolorosi ricordi di un passato che non tornerà più. Abbas infatti ha perso la moglie nella disperata fuga dal paese d’origine. Perdita che torna periodicamente sotto forma di sogno/fantasma della moglie stessa, che lo accompagna ma allo stesso tempo lo limita nell’espressione delle emozioni che potrebbero assicurargli un futuro felice.
Le interpretazioni di tutto il cast sono impeccabili, in particolare i due protagonisti riescono a trasmettere una vasta gamma di emozioni esprimendosi con pochissime parole.
Una recitazione estremamente fisica quindi, in cui si alternano diversi registri narrativi, facendo dimenticare tutto il dolore e la sofferenza allo spettatore nelle scene gioiose, che fungono da cardini a cui gira attorno la normalità che la pellicola di Saleh Haroun vuole raccontare. Il regista ha infatti dichiarato che l’intento di questo film è proprio quello di mostrare che non c’è alcuna “differenza che va tollerata” nelle persone che sono costrette ad abbandonare il proprio paese e a rifugiarsi nel nostro e proprio attraverso scene di vita quotidiana e gioia familiare, bruscamente interrotte e sconvolte dall’ostilità brutale del paese “ospitante”, che questo concetto passa forte e chiaro e fa breccia nel cuore dello spettatore.
Altro perno attorno a cui ruota la sceneggiatura è la dignità, valore fondamentale a cui si aggrappa il protagonista, esplicato nel bellissimo e intenso dialogo fra lui e il fratello, che hanno opinioni diverse e contrastanti sul restare in un paese che non ti accetta o tentare la sorte partendo nuovamente e ricominciando tutto d’accapo, altrove. Una delle scene più intense e significative del film.
Une saison en France: una regia intimista
Oltre a una sceneggiatura tanto asciutta quanto potente anche la regia accompagna egregiamente lo spettatore all’interno di questo spaccato di vita. Colpisce l’alternanza di riprese statiche e in movimento con camera alla mano, che scandiscono il ritmo e il patos della sceneggiatura, e riprese a distanza estremamente ravvicinata quando ad essere documentato è un momento intimo, quasi si voglia far sentire lo spettatore parte di quel desiderio di unione e amore fra corpi ma anche fra anime.
Non manca ovviamente l’aspetto di denuncia, che però rimane fra le trame e non si palesa fino alla scena culminante in cui viene espresso tutto il risentimento e la disperazione che scaturiscono dalla perdita di dignità umana a cui una la condizione di migrante e in seguito di clandestino inevitabilmente porta. In questo modo l’andamento della storia non risulta appesantito e a fare da reale protagonista è proprio la forte voglia di normalità e serenità, il desiderio di cominciare a ricostruire una vita nuova, in un nuovo paese e con nuove speranze.