Unicorn Store: recensione del film di e con Brie Larson
L'estetica glitterata domina la prima opera da regista di Brie Larson, che però risulta poco incisiva sotto diversi aspetti.
Dopo il successo di Captain Marvel, capace di oltrepassare in poche settimane di programmazione il miliardo di dollari di incasso al botteghino, Brie Larson approda su Netflix con il suo primo lavoro da regista Unicorn Store, disponibile dal 5 aprile sulla celebre piattaforma di streaming. Per affiancarla in questa sua prima fatica dietro la macchina da presa, l’attrice americana sceglie Joan Cusack, Bradley Whitford, Mamoudou Athie, Hamish Linklater e colui che ha già diviso la scena con lei nel Marvel Cinematic Universe, ovvero Samuel L. Jackson.
Le prime scene di Unicorn Store pongono le basi del racconto di formazione che ha per protagonista l’ingenua e appassionata Kit (interpretata da Brie Larson), che in pochi minuti vediamo approcciarsi ancora in fasce alla pittura (in quelli che sembrano filmini di famiglia della stessa Larson), per poi essere brutalmente respinta da una scuola d’arte una volta adulta. I colori accesi e sgargianti di cui si serve Kit e la sua passione per gli unicorni ci aiutano a inquadrare fin da subito il personaggio della protagonista, alle prese con la difficoltà di abbandonare definitivamente la propria infanzia in favore del mondo degli adulti e con un’insoddisfazione lavorativa che la fa sentire colpevole nei confronti dei genitori che ancora la mantengono.
Unicorn Store: il pallido esordio alla regia di Brie Larson
A esaltare il contrasto fra la sindrome di Peter Pan di Kit e il mondo del lavoro, che la irreggimenta in abiti formali e in rapporti umani freddi e insoddisfacenti, arriva il personaggio del misterioso venditore interpretato da Samuel L. Jackson, che propone alla protagonista di procurarle un vero unicorno, a fronte della soddisfazione di determinati requisiti umani. Nonostante Brie Larson si sforzi costantemente di dare tridimensionalità e forza al proprio personaggio, ricorrendo a una gestualità e a un’espressività ben più ampie di quelle mostrate nel trionfale Captain Marvel, Unicorn Store non riesce a divincolarsi da quello che è lo stesso problema di Kit, ovvero l’incapacità di trovare un equilibrio fra maturità e fanciullesco e fra sogno e disillusione.
Il percorso di crescita e auto-accettazione di Kit assume rapidamente i connotati di un’operazione poco incisiva nei contenuti e fuori tempo massimo. L’estetica tipicamente indie di Unicorn Store ci riporta con la mente a diverse commedie uscite dal Sundance Film Festival degli ultimi decenni. Manca però quel sottile equilibrio che rende lavori come La mia vita a Garden State perfettamente fruibili da generazione diverse, senza risultare forzati né per i millennials né per gli adolescenti di oggi. Il peccato più grave di Unicorn Store è infatti quello di non scrollarsi mai di dosso la sua patina infantile e sognante, che finisce per indebolire anche i pochi spunti potenzialmente interessanti per le giovani donne di oggi, come le molestie sul lavoro o la sensazione di costante instabilità lavorativa e sociale.
Unicorn Store non riesce a trovare il proprio target di riferimento
La scarsa consistenza dei personaggi secondari, la recitazione costantemente sopra le righe di Samuel L. Jackson e la maniera limpida e disarmante di usare l’unicorno come simbolo di una felice infanzia da comprendere e successivamente lasciare andare avrebbero potuto passare inosservate fino a qualche anno fa, ma, in un’epoca cupa ed estremamente complessa come quella che stiamo vivendo, diventano le problematiche più evidenti di un progetto poco consistente e ben più ordinario di quanto la sua estetica glitterata vorrebbe fare credere, tolto probabilmente dalla naftalina (la presentazione risale al Toronto International Film Festival del 2017) proprio per sfruttare il successo planetario dell’ultimo cinecomic targato Marvel.
Tirando le somme, Unicorn Store si rivela un prodotto privo di un reale target di pubblico e incapace di conseguenza né di lasciare un segno negli adolescenti di oggi, troppo distanti dalla parabola umana e dalle problematiche della protagonista, né fra i giovani adulti, che al di là di un’atmosfera che richiama esplicitamente gli anni ’90 per la scelta di colori, costumi e scenografie, faticheranno a trovare un gancio emotivo fra la loro condizione e il semplicistico e auto-assolutorio percorso di Kit.