Upside Down: recensione del film di Luca Tornatore
Upside Down - basato su una storia vera - racconta dell'importanza dello sport per combattere i pregiudizi sulla disabilità. Dal 21 ottobre al cinema.
Upside Down è una di quelle pellicole che dichiara il suo intento fin dal titolo: sovvertire i pregiudizi e gli stereotipi su una condizione – la disabilità – e sulla sua narrazione.
Il protagonista della storia è infatti Paolo (Gabriele di Bello), un ragazzo con la sindrome di Down che combatte ogni giorno sguardi e atteggiamenti altrui attraverso l’ironia e un’assoluta sincerità nel porsi esattamente per quello che è. Ad aiutarlo e affiancarlo ogni giorno ci sono i genitori: Veronica (Donatella Finocchiaro) e Lorenzo (Fabio Troiano), la prima vitale e propositiva come il figlio, il secondo terrorizzato dall’incapacità costante di non saper gestire la situazione. Il mezzo con il quale Paolo riuscirà – almeno nel tempo del film – a scardinare i preconcetti nei suoi confronti è lo sport, in particolare il pugilato.
Upside Down – Una narrazione quotidiana ma statica
Il tema dello sport come strumento per il riscatto sociale è stato fin troppo abusato nel cinema per essere utilizzato senza una chiave di lettura innovativa. Ma procediamo con ordine. L’incontro con la boxe arriva solamente in un secondo momento, mentre in Upside Down ogni gesto, inquadratura o segmento narrativo è fondamentale per comprendere l’intento del film – mai pienamente raggiunto. La pellicola comincia con Paolo che si alza la mattina presto per andare a comprare il pesce con i soldi del suo stipendio. Torna a casa, si scontra con il padre, seccato e preoccupato per l’autonomia di suo figlio, va a lavoro – dove si rende utile e risolve anche alcuni problemi – rincasa, cucina e va a letto. Una giornata banale e quotidiana: il senso del film è tutto in queste prime sequenze. E il racconto della vita di Paolo prosegue pedissequamente: la settimana bianca, durante la quale cerca di insegnare a sciare a sua madre, il lavoro al ristorante, la palestra. Ovviamente non mancano occhiate degli astanti, atteggiamenti fuori luogo e imbarazzo, ma Paolo si lascia scivolare tutto addosso. La sua ingenuità e la sua volontà di porsi per ciò che è sono il suo scudo contro il mondo.
Fino all’incontro folgorante con il pugilato e con l’allenatore della palestra che frequenta, Armando (Antonio Zavattieri). Da quel momento in poi il mondo del protagonista, e di conseguenza quello del film, viene a coincidere solamente con lo sport e con il racconto degli estenuanti allenamenti, delle difficoltà e degli ostacoli fino al coronamento del sogno di Paolo e di chi gli sta intorno: far accettare il ragazzo nonostante la sua disabilità. Una trama di certo non inedita – come già accennato – costruita dal regista in una maniera che vorrebbe “normalizzare” il racconto di certi temi ma che in realtà gli si ritorce contro. Il più grande problema della pellicola, infatti, è proprio la mancanza di qualche slancio narrativo ed emotivo.
Upside Down – L’assenza di trama intorno alla tematica sportiva
La pellicola procede quindi in maniera statica, lenta e frammentata. Intorno al rapporto fra Paolo e il pugilato manca una trama coesa e strutturata. Il film si basa sulla fisicità del suo interprete, sui primi piani del suo volto e sulla volontà di puntare tutto sul risultato finale, ovvero l’ovvio ribaltamento dell’idea che la gente ha delle persone che soffrono di disabilità, compreso il padre. Ma una vicenda così complessa e delicata merita una trattazione più profonda. Giustapporre momenti di vita di un ragazzo con la sindrome di Down, mettergli accanto due figure genitoriali agli antipodi ma ugualmente “caratterizzate” – la madre che tifa per il figlio e il padre apprensivo – e cercare, attraverso il racconto di azioni semplici e quotidiane, di scardinare un intero sistema di pregiudizi non è sufficiente. La pellicola cerca di destrutturare gli stereotipi che girano intorno alla disabilità ma lo fa con una narrazione intrisa di stereotipi. il risultato finale assomiglia, quindi, più a un documentario didascalico e retorico che al film sovversivo che il regista aveva in mente. Contribuiscono ad acuire questa sensazione tutti gli altri elementi del film. La sceneggiatura – affiancata da una colonna sonora completamente fuori contesto – non riesce sostenere il peso della storia che racconta e il montaggio amplifica la sensazione di lentezza già contenuta nell’idea alla base della narrazione. La caratterizzazione dei personaggi non è approfondita: non solo i genitori, ma anche gli altri protagonisti sono vittime del proprio ruolo. Armando è un allenatore duro ma comprensivo, con un passato doloroso alla spalle al quale ha reagito con straordinaria forza d’animo; i compagni di palestra accettano Paolo immediatamente e diventano suoi grandi amici e sostenitori senza nemmeno averlo mai realmente conosciuto; chiunque non faccia parte della cerchia ristretta che ruota intorno al ragazzo lo guarda invece con diffidenza, supponenza o peggio “come se fosse scemo”. Di conseguenza anche il cast risulta spesso fuori parte mentre il protagonista, affetto da sindrome di Down anche nella realtà, si limita ad essere sé stesso, in maniera coerente con il messaggio del film.
Upside Down, sulla carta un progetto coraggioso e originale – almeno nel panorama italiano – resta quindi schiacciato dal peso della storia e dal modo in cui viene raccontata, risultando statico e poco coinvolgente. Per raccontare di tematiche così delicate attraverso temi e generi fin troppo consolidati c’è bisogno di aggiungere qualcosa alla narrazione. Altrimenti il rischio è di rimanere imbrigliati negli stessi stereotipi che si sta cercando di combattere.