Vallanzasca – Gli angeli del male: recensione
Sono gli anni ’70, e in tutta la Lombardia, tra Lodi e Milano, c’è un solo nome che risuona: quello di Renato Vallanzasca. Il criminale dal fascino oscuro, il criminale sanguinolento odiato dai carabinieri, colpevole di averne fatti fuori troppi durante i suoi colpi, il criminale delle grandi evasioni.
Vallanzasca – Gli angeli del male: una vita degna di un film, che non smette di combattere, nemmeno dietro le sbarre
È in carcere che lo troviamo, con i suoi occhi azzurro ghiaccio, il suo fisico deperito a suon di botte e cibo scadente, botte che ancora una volta gli stanno per arrivare addosso, perché questo lui è, un ladro, queste sono loro, le guardie, e il loro destino è quello di rincorrersi e sfidarsi.
Vallanzasca ci porta così indietro nel tempo, per raccontarci la storia e la vita del Bel Renè, mostrandocelo bambino, già dedito a piccoli e grandi colpi, che lo portarono al carcere minorile, per poi formare una banda con la quale svaligiare portavalori: sono gli anni di piombo che qui sono quelli dorati, della ricchezza mostrata e appariscente, gli anni delle prime droghe sintetiche che incasinano la testa.
Non quella di Vallanzasca, però, furbo e intelligente – bisogna dargliene atto! – che con la sua bella faccia tosta riesce a farla franca, a fare un figlio mentre è in carcere, a sposarsi pure, a evadere più volte da quel carcere e dare inizio a una escalation di furti e violenze che lo riporteranno dietro le sbarre, ma soprattutto alla fama e al successo.
Impossibile non trarne un film: è il fascino del male, il fascino che in quegli anni portò centinaia e centinaia di donne a scrivere a quel criminale lettere infuocate e amorevoli e, tra Francia e Italia, nomi tra i più noti (Fernando Di Leo, Marco Risi) a tentare di portare su grande schermo la sua storia.
Tra questi Michele Placido esce vincitore dopo anni di tentativi falliti e sceglie la via della biografia didascalica: dal Vallanzasca bambino al Vallanzasca delle grandi imprese, i suoi intrallazzi con la mafia, ma prima ancora il suo bisogno di farsi grande, di farsi riconoscere e di riuscire nelle imprese che si mette in testa.
Non è il denaro che lo chiama, non è il lusso che cerca: è la sfida.
E in questo Kim Rossi Stuart è pazzesco nel mostrarcelo, addolcendo un forte accento milanese che contraddistingue un ragazzo di strada che di testa ne ha, eccome, ma la usa per i fini peggiori. L’attore si fonde anima e corpo con il suo personaggio, prendendone i tic, i modi di dire, la fisicità. Si mostra e ci mostra tutto se stesso, ammiccando a noi come a quella popolazione che delle sue imprese rimase sconvolta ma affascinata, ed è tutto un piacere da vedere.
Anche il livello di regia è alto, curata e ritmata, forse a volte eccessiva nella sua velocità, nel suo ripetersi, forse un po’ troppo patinata, ma che si distacca dal genere fiction a cui si è abituati, fondendosi con una colonna sonora curata dai Negramaro che regalano atmosfere 70’s e accompagnando con la loro Voglio molto di più i titoli di coda.
Il resto del cast non è da meno, a partire dal paranoico Filippo Timi, infame e imperdonabile, fino alle belle e malinconiche Paz Vega e Valeria Solarino, l’ultima e la prima a cadere in un abbraccio oscuro.
Ma è ovviamente Rossi Stuart (Renato Vallanzasca) su cui i riflettori sono puntati, con la sua storia, la sua vita, degna di un film, che non smette di combattere, nemmeno dietro quelle sbarre e con quelle guardie che lo hanno beffato.
Perché il suo nome è diventato leggenda, e questa è la vera prigione dal quale non si può uscire: dover avere sempre la testa pronta, la battuta giusta, anche nel momento peggiore.
Come quello finale: Hai fatto tredici!