Venezia 76 – A Bigger World (Un monde plus grand): recensione
Recensione di A Bigger World (Un monde plus grand), film presentato a Venezia 76 da Fabienne Berthaud, sulla ricerca di se stessi, della propria verità.
Su come elaborare il lutto, la perdita, tutti siamo a conoscenza di un’infinita quantità di diverse modalità e reazioni, di escamotage, tattiche e via discorrendo, ma di certo l’iter suggerito da A Bigger World (Un monde plus grand) diretto da Fabienne Berthaud, e tratto dal romanzo di Corine Sombrun, è uno dei più originali e spiazzanti.
Protagonista è Corine (Cecile de France), 40enne che da poco ha perso l’amatissimo marito Paul e che non riesce semplicemente a ricominciare e a vivere, ritrovandosi spezzata e in frantumi, chiusa in casa e depressa. Seguendo il consiglio della sorella e di chi le vuole bene, decide di partire per la lontana Mongolia, per realizzare un documentario e distrarsi, allontanarsi da quella metropoli e quelle quattro mura che la stanno schiacciando.
Lì Corine rimane coinvolta in un rituale sciamanico che la porterà ad una svolta per quello che riguarda convinzioni religiose, il rapporto con il mondo del soprannaturale e con la memoria di quella dolce metà che non riesce a lasciar andare così.
A Bigger World (Un monde plus grand): un film originale per parlare di lutto e perdita, scommettendo sempre su se stessi
Film strano, originale, dal ritmo e dall’anima incerte, meticce questo A Bigger World (Un monde plus grand), sicuramente uno dei film più spiazzanti visto in questa rassegna veneziana, che ondeggia continuamente tra inquietudine e ironia, tra il detto e il non detto. Di certo un film che spiega in modo eloquente quanto spesso nella vita, di fronte a certi bivi, certe difficoltà, l’unica cosa da fare è perdersi dentro qualcosa di ignoto, scommettere su sé stessi, cambiare pelle e habitat.
Cecile de France dopo Hereafter di Clint Eastwood, torna nei panni di un’altra donna dell’occidente razionale e materialista che trova nella spiritualità e nel credere in qualcosa di lontano, quasi primitivo e decisamente sciamanico, un’ancora di salvezza, una ragione di vivere. La sua Corine conquista sicuramente la simpatia del pubblico per la sua energia, la sua autocommiserazione sempre ironica, la sua umanità e sprezzo del pericolo, che si tramutano in una volontà di superare una barriera culturale che è soprattutto regno della menta umana, non realtà.
La bellissima fotografia di Nathalie Durand si adatta perfettamente a un iter che vede nella metropoli una gabbia, un susseguirsi di spazi chiusi, angusti, prigione dell’anima e del corpo, mentre la Mongolia, con il suo verde sfavillante, le sue tende accoglienti è mistero ma anche libertà, riconciliazione del corpo con la natura.
A Bigger World (Un monde plus grand) è un inno alla verità
Tuttavia la sceneggiatura di Berthaud e Claire Barrè, si fida troppo del non detto, confonde mistero con scarno, non motiva né illustra in modo sufficientemente completo e coerente la metamorfosi di quest’anima persa e ballerina, il suo accettare qualcosa di così distante, così lontano dal suo mondo. In diversi momenti, A Bigger World (Un monde plus grand) pare quasi disinteressarsi totalmente dello spettatore, sposare la causa della protagonista e soprattutto la sua inesplicabilità verso gli abitanti di un occidente descritto come antro pauroso e sterile, totem della solitudine.
La Mongolia, le terre da dove Gengis Khan paradossalmente partì per insanguinare il mondo, sono qui culla, abbraccio incredibilmente vicino, intimo, da parte di un universo che esplica in modo perfetto che quell’ “Oriente misterioso” che i romanzi d’appendice ci han sempre descritto lo era solo in relazione alla dimensione spaziale.
A Bigger World (Un monde plus grand) alla fin fine infatti, è soprattutto un grande inno non tanto all’universalità dell’uomo e dell’animo, quanto al suo intento principe di dare bene o male una spiegazione, un nome, agli stessi fenomeni, paure e illusioni, allo stesso dolore. Cambia il modo di affrontarli, di respingerli o accoglierli, ma siamo tutti e tutte uguali nella ricerca della verità, la nostra verità, di chi siamo e dove stiamo andando. Cambia la modalità di arrivo, non il percorso, per quanto l’apertura mentale di questa cultura antica e moderna assieme, sia sicuramente messa in contraltare all’arido determinismo occidentale.
Al netto di alcuni difetti, Un Monde Plus Grande è sicuramente un film che merita di essere visto, a patto di sgombrare la mente e dimenticarsi l’eurocentrismo che ci condanna alla cecità.