Venezia 76 – Verdict: recensione
Recensione di Verdict, film filippino convulso e prolisso presentato a Venezia 76, che racconta la lenta macchina della giustizia tra violenza e omertà.
Una violenza domestica e il lungo processo per ottenere giustizia: questo è Verdict, film filippino di Raymund Ribay Gutierrez presentato a Venezia 76. Tutto inizia in un quartiere malfamato e caotico di Manila. Dante, uomo violento e piccolo criminale, picchia selvaggiamente sua moglie e finisce per ferire anche la figlioletta di sei anni. Un sopruso all’ordine del giorno, al quale Joy decide di porre fine, denunciandolo. La macchina della giustizia, come spesso accade, sarà lentissima.
Verdict: la crudeltà della violenza su donne e minori
Con Verdict, il regista Raymund Ribay Gutierrez denuncia la violenza domestica come forma di abuso più diffusa nelle Filippine. Il caso di Joy è comune a moltissime donne sparse non solo nell’isola del Sud Est asiatico, ma in tutto il mondo. La vittima, in questo caso, sceglie di reagire quando capisce che la situazione è diventata intollerabile. A pagarne le spese è infatti anche Angel, la figlia di sei anni della coppia di Verdict. Finalmente Joy reagisce e insieme alla bambina denunciano l’uomo che per anni le ha tenute sotto scacco, in un matrimonio e in una situazione familiare ormai non più salutare. La storia di Verdict parte da qui.
Il film segue la procedura burocratica conseguente la denuncia: dalle visite in ospedale per accertare le condizioni della vittima agli atti giudiziari, fino alla costruzione dell’accusa e della difesa, che porterà le due parti (moglie e marito) a scontrarsi in tribunale. Per Joy e la piccola Angel è l’inizio di un incubo e una lunga notte passata tra ambulatori e stazioni di polizia. La donna scopre tuttavia che la giustizia nel migliore dei casi è lenta, a volte persino impossibile da ottenere. Inoltre, sente che lei e la bambina sono sempre più in pericolo di vita.
Verdict: la lenta macchina della giustizia
Per colpire il pubblico e guardare con gli occhi di una vittima di abuso, il regista ha incontrato una donna che aveva subito violenza dal marito durante un litigio. Seguendo il suo caso, si è poi scoperto che non poteva proseguire l’iter giudiziario perché di fatto impraticabile. Il costo di una procedura giudiziaria è astronomico per un filippino medio e non molti possono permetterselo; in tanti abbandonano la pratica, e, rovescio della medaglia, le violenze sono in costante aumento.
Con Verdict, Gutierrez fa luce sulla lenta macchina della giustizia e lo fa attraverso una narrazione convulsa, fatta di immagini forti. L’uso del colore scuro, talvolta fastidioso, serve a sottolineare la crudeltà di un sistema malato e inconcludente. La telecamera si muove in modo violento sui personaggi per seguire le loro espressioni e soffermarsi sui particolari – un livido sul braccio, un occhio gonfio, una mano impotente. Il tutto per rappresentare un contesto sociale povero e degradante.
Il regista vuole dimostrare che a volte l’equità nel contenzioso porta a una procedura più complessa che si traduce nell’impunità dell’accusato. Lo scopo è cercare giustizia per la vittima, e la regolarità delle procedure giudiziarie è importante, ma se le procedure stesse diventano l’unico obbiettivo possibile, rischiano di stravolgere quella giustizia che dovrebbero garantire. Se il tempo necessario a raggiungere un verdetto è irragionevolmente lungo, il procedimento finisce per negare il suo vero scopo iniziale. Cercare testimoni si rivela assai arduo sia per Joy che per Dante, soprattutto perché molti hanno paura a parlare, e qui emerge anche un altro fattore importante di un sistema sociale comune: l’omertà delle persone.