Vermiglio: recensione del Leone d’argento di Venezia 81
Maura Delpero, nuova importante voce del cinema d'autore, realizza un film magico e inafferrabile che rischia e indaga "oltre".
Tutti i pronostici erano a favore di Paolo Sorrentino – già premiato in passato dall’Academy -, e invece per rappresentare l’Italia agli Oscar 2025 è stato scelto Vermiglio, la seconda regia cinematografica di Maura Delpero. L’autrice, che si era fatta notare alla Mostra del Cinema di Venezia portandosi a casa un importantissimo Leone d’argento, si candida dunque alla premiazione più prestigiosa del mondo – attendiamo di sapere se verrà selezionata nella cinquina ufficiale – con un’opera intensa e delicata, precisa e realistica ma al contempo, in un certo senso, anarchica e inafferrabile.
Vermiglio: il sogno lucido di un’esistenza (s)conosciuta
Delpero ha dichiarato di aver ricevuto l’ispirazione per questo film dal padre defunto, in sogno: questo forse può spiegare la magia spettrale e la (s)fuggente e irresistibile seduzione che accompagnano le immagini di Vermiglio sin dalle prime inquadrature. L’impressione è che dietro l’apparente semplicità della scrittura e della messa in scena si nasconda una potenza straripante che è al di là, che vibra in segreto e si libera rarefatta, che viene appena percepita, o meglio attraversata soavemente nel misterioso, imprevedibile e interscambiabile dialogo triangolare di sguardi tra chi rappresenta, chi interpreta e chi vede.
La dimensione intima e circoscritta dell’ambientazione – un luogo naturale terreno e tendente verso il cielo che diventa sì protagonista, ma anche disinteressato spettatore e Dio inventore di eventi – accompagna il racconto di un quotidiano fatto di piccoli gesti e grandi paure, di folgoranti scoperte e storiche contraddizioni, di nemici invisibili e vicini, di amici visibili e lontani, di emozioni concentrate e condivise, di letti familiari e letture sconosciute difficili da abbandonare. Una sinfonia ipnotica e ascendente che si nutre della distanza partecipata tra l’autrice e il suo (s)oggetto di ricerca.
A detta dell’autrice stessa, i bambini hanno qui una funzione simile a quella del coro nella tragedia greca, e in effetti l’opera trova nella dimensione corale il suo punto di concepimento e di approdo, il suo campo di restringimento e il suo anelito di libertà; non soltanto nella parola-(in)canto dei personaggi più piccoli, ma soprattutto nelle note tese e intangibili che rassomigliano a – e talvolta sono – motivi sacri e religiosi. Sull’ambiguità di questi (in)fondamenti cresce intrepido il tema del materno – già affrontato da Delpero nella pellicola precedente -, (re)suscitando le più conturbanti (di)visioni e le più mistiche irresolutezze, con buona pace di chi sta puntualmente cercando di intravederci il solito femminismo di cartello e una condanna all’ormai famosissimo “patriarcato“.
Vermiglio: valutazione e conclusione
Questo film restituisce la magia commovente di un cinema delicato che sa meravigliarsi e meravigliare senza caricare troppo, toccando il cielo in punta di piedi. Il carattere di Delpero potrebbe apparire minimalista, eppure possiede tutto l’incanto e la fantasia di chi rischia e indaga oltre, negli spazi più larghi e remoti, ancora quando sembra stringere claustrofobico e intercettare il linguaggio sterile della contemporaneità. Vermiglio ha una lingua invisibile e congelata che è musica per sordi e analfabeti, uno sguardo unico e periferico ma anche imponente da cinema statuario. E chissà, magari persino da statuetta.
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