Videodrome: recensione del capolavoro di David Cronenberg
In occasione del trentacinquesimo anniversario del film, la nostra recensione di Videodrome, manifesto del cinema di David Cronenberg e della sua ossessione per la fusione fra corpo e macchina
Sono passati esattamente 35 anni dal giorno in cui ha visto la luce Videodrome, ottavo film dello straordinario David Cronenberg. Un film morboso, disturbante e a tratti quasi sadico nei confronti dello spettatore, ma capace di sintetizzare perfettamente l’ossessione del cineasta canadese per la mutazione della carne e di essere al tempo stesso corrosiva e per certi versi premonitrice satira sulla società. Un’opera sciaguratamente snobbata dal pubblico dell’epoca, ma fondamentale per la sua lucida e tragica riflessione sui rischi legati alla sempre più forte intromissione della televisione nell’esistenza umana e per l’intera corrente cyberpunk, di cui rimane ancora oggi una delle vette massime nonché perpetua fonte d’ispirazione per le nuove generazioni di cineasti. Lo spartiacque e il manifesto artistico di uno dei registi più importanti degli ultimi decenni, che ha saputo addentrarsi come nessuno negli anfratti più nascosti della mente umana.
Max Renn (James Woods) è il proprietario della piccola emittente privata Civic TV, che prospera offrendo ai propri telespettatori ciò che non possono trovare sui grandi network, ovvero contenuti pornografici o estremamente violenti. Nella ricerca di programmi di questo genere, Max entra in contatto con Videodrome, un’emittente pirata che trasmette immagini di torture per poi scomparire improvvisamente dopo pochi minuti. Attirato da questa frequenza, l’uomo comincia a cercare i suoi proprietari, finendo però per essere inghiottito da un vortice di violenza, morbosità e allucinazioni, parte di un’inquietante cospirazione su larga scala.
Videodrome: un incubo kafkiano sul potere dei mass media
David Cronenberg realizza una pellicola che ancora oggi affascina, sconvolge e punta duramente il dito contro la capacità da parte della televisione e dei mass media di influenzare e distorcere la nostra percezione. Lungi dall’essere una mera critica alla tecnologia e alla sua crescente invasività, Videodrome indaga invece in profondità sul nostro modo di fruire dell’immagine televisiva e delle molteplici realtà che essa crea intorno a noi, dando vita a un’angosciante contaminazione fra erotismo e violenza e fra carne e metallo, che costituirà l’ossatura e il filo conduttore di tutta la produzione successiva del cineasta canadese. Cronenberg intreccia il suo complesso discorso etico e sociale con il suo proverbiale gusto per un’immagine torbida, sinistra, ipnotica, che dà vita a un’atmosfera onirica e allucinata, che turba e allo stesso tempo affascina lo spettatore.
Protagonista di questa discesa negli abissi della mente umana è Max, magistralmente impersonato da un mefistofelico James Woods. Un cinico e spietato produttore televisivo, che si trova a riconnettersi con le sue più intime e viscerali pulsioni nel modo più anomalo e inaspettato, ovvero un legame sempre più perverso con la trasmissione Videodrome e con la sua estensione fisica per eccellenza, ovvero la televisione. Grazie anche all’abilità negli effetti speciali del 7 volte premio Oscar Rick Baker, David Cronenberg mostra la fusione fisica fra corpo e macchina e quella cerebrale fra individuo e tecnologia, costruendo un rapporto che travalica i confini di sessualità e violenza, di realtà e rappresentazione, scuotendo continuamente le certezze e le aspettative dello spettatore.
Videodrome: l’ibridazione fra carne e tecnologia
Il cineasta canadese ci mostra senza alcun tipo di filtro visivo o morale la dolorosa fine della società come la conosciamo e la nascita di qualcosa di totalmente nuovo e imprevedibile, generato dall’ibridazione fra la carne e lo strumento televisivo, ormai l’unico strumento con cui accendere o risvegliare le nostre più intime emozioni. Assistiamo così a veri e propri rapporti sessuali fra uomo e televisione, emblematici non soltanto della perdita di identità in atto nella civiltà umana, ma anche del progressivo avvicendamento fra la carne e la tecnologia come strumento di eccitazione sessuale, in una geniale premonizione della nostra società contemporanea, con la pornografia ormai a portata di mano (o della sua mutazione in smartphone) e sempre più surrogato dei rapporti sessuali veri e propri.
La sceneggiatura ondeggia sicura fra visioni, suggestioni e fascinazioni, dischiudendo lentamente tutta la sua feroce critica sociale. Le musiche del fido collaboratore del regista Howard Shore enfatizzano ed esaltano i momenti più inquietanti, mentre James Woods, già in forma C’era una volta in America, è semplicemente fenomenale nel caricarsi l’intero peso della pellicola sulle spalle, con una strabiliante gamma di emozioni ed espressioni. La maestria dietro la macchina da presa di David Cronenberg fa il resto, districandosi fra primi piani asfissianti, atmosfere putride e malsane e inquadrature cariche di un simbolismo insistito ma mai forzato sull’assimilazione sempre più corrotta della realtà.
Videodrome mette in scena la definitiva vittoria della visione sulla realtà
Parallelamente alla contaminazione fra carne e tecnologia e a una lacerante riflessione sulla percezione dell’immagine, Videodrome contiene anche notevoli spunti di cospirazionismo, che in una certa misura lo avvicinano concettualmente all’altrettanto memorabile Essi vivono di John Carpenter, di pochi anni successivo, e lo rendono fra i progenitori del filone di fantascienza distopica che ha imperversato nei decenni successivi (Matrix deve proprio a Cronenberg gran parte del proprio successo). La misteriosa trasmissione televisiva captata da Max diventa infatti per le autorità governative lo strumento perfetto tramite cui diffondere un tumore al cervello (ennesima mutazione del corpo) atto a rimuovere dalla società gli elementi più instabili e pericolosi, come appunto le persone interessate a trasmissione estreme e violente. Una visione cupa e maligna della società e del potere, acuita dalla figura del personaggio emblematicamente chiamato O’Blivion, capace di sopravvivere alla morte tramite la diffusione di centinaia di registrazioni opportunamente sfruttate.
Attraverso immagini di rara forza e intensità (su tutte la videocassetta inserita dentro Max tramite uno squarcio nel suo corpo e la mano che oltrepassa la televisione avvicinandosi allo spettatore), Videodrome mette in scena la definitiva vittoria della visione sulla realtà e il totale annientamento della società a noi conosciuta, in favore di qualcosa di nuovo e deforme, spaventoso e incontrollabile, esplicitata dall’emblematica frase Morte a Videodrome, gloria e vita alla nuova carne. Sull’altare di questa morte e risurrezione dell’umanità manca soltanto un sacrificio, che non può arrivare da altri che Max, a cui David Cronenberg affida un finale amaro, beffardo e sfuggente a qualsiasi tentativo di razionalizzazione e catalogazione. Nel trionfo della percezione e della trasmigrazione dell’uomo nel tubo catodico, la morte non può che essere infatti al tempo stesso sollievo, strumento e simbolo di una rinascita o dell’ennesima alterazione della realtà.
“Morte a Videodrome, gloria e vita alla nuova carne“
Videodrome è la macabra e sadica celebrazione del progressivo annullamento dell’umanità, dello spirito critico e del libero pensiero. Un incubo kafkiano sull’inesorabile declino della società e sull’inarrestabile ascesa dei mass media e della sorta di culto da essi generato. La pietra angolare del cinema di David Cronenberg e della sua riflessione sulla contaminazione e sul controllo dell’essere umano, che troverà nei successivi Il pasto nudo (con la scrittura) e con Existenz (con la realtà virtuale) altre due memorabili manifestazioni. Un atto di denuncia nei confronti della fascinazione della tecnologia sull’uomo, ma anche un appassionato quanto angosciante atto di ribellione contro l’irreggimentazione e l’abbattimento della personalità. Una stupefacente e visionaria opera d’arte, che a 35 anni esatti dalla sua uscita continua ad avvolgerci e a colpirci duramente in pieno petto, come solo il grande cinema sa fare.