Berlinale 2020 – Volevo nascondermi: recensione del film con Elio Germano
Elio Germano è il pittore Antonio Ligabue nel film di Giorgio Diritti Volevo nascondermi, in concorso alla Berlinale 70
In concorso alla 70esima edizione del Festival Internazionale del cinema di Berlino Volevo Nascondermi, il nuovo film di Giorgio Diritti con protagonista Elio Germano nei panni del pittore Antonio Ligabue. Prodotto da Palomar con Rai Cinema il film sarà nelle sale dal 4 marzo 2020.
Un’anima disgraziata, una vita piena di sofferenza, trascorsa da un manicomio all’altro sin da piccolo, intervallata da periodi in famiglie adottive che non sapevano amarlo veramente: Antonio Ligabue (1899- 1965) è uno dei pittori più controversi del panorama italiano e anche uno dei più apprezzati. “El Tudesc” lo chiamavano, figlio di un’emigrante italiana, respinto dalla Svizzera in Italia per i suoi problemi psichici, le sue intemperanze, i suoi comportamenti anomali nel periodo fascista in cui tutto doveva essere ordine e disciplina.
Volevo nascondermi – Elio Germano in una mimesi straordinaria
Volevo nascondermi esordisce con l’immagine di Ligabue nascosto sotto una coperta scura in un manicomio, impaurito come un bambino solo. L’improvviso flashback mostra i ricordi angoscianti della sua infanzia e adolescenza, maltrattato, deriso, umiliato, considerato “vittima” di demoni insinuatisi nell’anima. Traumi che si porta appresso per tutta la sua esistenza, cercando di nascondersi dagli altri. La narrazione ci porta poi, infatti, al presente da adulto di Ligabue a Gualtieri in Emilia Romagna dove vive nei boschi sulle rive del Po, immerso totalmente nella natura, lontano dalla “civiltà” che lo considera un matto pericoloso da vessare o ignorare perché strano, brutto e rachitico. L’incontro proprio nel bosco con l’artista Marino Mazzacurati che lo accoglie in casa sua gli permetterà presto di rivelare il suo talento di pittore.
Leggi il nostro Editoriale | Essere Elio Germano: l’attore più favoloso del cinema italiano
Elio Germano in una mimesi straordinaria diventa Toni Ligabue: il trucco calibrato e non posticcio di Lorenzo Tamburini (David di Donatello per Dogman), è un supporto in più per l’attore per comunicare attraverso lo sguardo intenso e le movenze l’essenza, la sofferenza, il bisogno di amore del pittore. Come una bestia selvaggia, come i suoi amati animali, soggetti preferiti dei suoi dipinti – tigri, galline, conigli, cani, cavalli – si muove guardingo tra la gente, tra chi nel bene e nel male gli si avvicina, spaventato da quello che potrebbero fargli. Osserva gli animali e li imita, li accarezza, li abbraccia sentendosi apprezzato solo da quelle anime pure, come la sua, e dai bambini. La sua disperazione quando muore una bambina di Gualtieri che poi ritrae e al cui dipinto chiede disperato “Dove sei?” è straziante e rivela tutta la tenerezza e l’umanità di colui che era considerato un fenomeno da baraccone, un freak pericoloso che meritava solo di essere rinchiuso in manicomio.
Il processo artistico di Ligabue passa per l’immedesimazione totale nelle bestie che ritrae: la sua è arte istintiva, dipinge quello che vede e attraverso questo comunica quello che sente. Le bestie minacciose divengono così simbolo dell’universo di Ligabue, della rabbia repressa per la sua condizione di reietto. Una condizione che tenta di superare: alterna, infatti, ai dipinti di animali, numerosi autoritratti nei quali sembra voler segnalare la sua esistenza, alla ricerca di una vita normale che non avrà mai. Anche quando il suo talento sarà riconosciuto e omaggiato da premi e mostre Toni non riuscirà a togliersi di dosso la sua condizione di “diverso”: il tenero amore verso Cesarina, una sua compaesana, per esempio, rimarrà solo un anelito irrealizzabile di una vita felice.
Volevo nascondermi – Una regia elegante ma fredda
Una grande sfida quella di Diritti e Germano visto il ricordo ancora forte nella memoria collettiva dello sceneggiato televisivo del 1977 dedicato a Ligabue diretto da Salvatore Nocita e interpretato da Flavio Bucci che consegnò un ritratto autentico e struggente del pittore.
Giorgio Diritti sceglie una messa in scena elegante e veritiera, curata nei minimi particolari negli ambienti – un’Emilia Romagna portata con maestria indietro nel tempo grazie alle scenografie di Ludovica Ferrario – nelle bellissime riprese nei boschi e sul fiume, nella scelta dei figuranti e dei comprimari, volti “veri” che sembrano usciti da un film di Ermanno Olmi o Bernardo Bertolucci, e nella suggestiva colonna sonora firmata da Daniele Furlati e Massimo Biscarini. Tutto questo, però, non riesce a restituire appieno il pathos, il sentimento di un’anima travagliata come quella di Ligabue e non basta la bravura indiscutibile di Elio Germano ad abbattere la distanza che si crea dal suo personaggio, nonostante le scene altamente drammatiche. Una regia “fredda” con continui salti temporali che impediscono di comprendere fino in fondo sia le cause di un disturbo così profondo in Ligabue sia la genesi della sua arte e i passaggi fondamentali che lo portano al successo come pittore, all’accettazione da parte dei compaesani e all’attenuarsi delle sue crisi.
Leggi anche Flavio Bucci tra cinema e teatro. La bellezza di vivere fuori dagli schemi